LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI DI PRODUZIONE, DELLE ROTTE COMMERCIALI E DEL REIMPIEGO NEL MONDO ANTICO
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI
DI PRODUZIONE, DELLE ROTTE COMMERCIALI E
DEL REIMPIEGO NEL MONDO ANTICO
Giacomo DISANTAROSA
(Università degli Studi di Bari)
1. Le anfore: contenitori per antonomasia dall’antichità alla contemporaneità1
„La realtà della vita quotidiana non è soltanto piena di oggettivazioni:
è possibile esclusivamente grazie a loro. Io sono costantemente
attorniato da oggetti che «proclamano» le intenzioni soggettive dei miei
consimili, sebbene possa a volte dubitare su che cosa un particolare oggetto
«proclami», soprattutto se è stato prodotto da uomini che non ho conosciuto
bene o non ho conosciuto affatto in incontri diretti. Ogni etnologo o archeologo
potrà agevolmente testimoniare di questa difficoltà, ma il solo fatto
che egli può superarle e ricostruire da un prodotto lavorato le intenzioni
soggettive di uomini la cui società può essersi estinta da millenni è una
prova eloquente delle capacità delle oggettivazioni umane di durare nel
tempo”2
.
Questo concetto sulla capacità delle oggettivazioni di „durare nel tempo”
– espresso dai sociologi P. L. Berger e T. Luckman – trova un riscontro
eloquente quando si prova ad osservare alcuni elementi decorativi utilizzati
per la monumentalizzazione di fontane pubbliche realizzate agli inizi del
Novecento. A Roma nel quartiere Testaccio, a Bari nei pressi del Castello
Normanno-Svevo e in alcune località della Puglia (Fig. 1), per citare solo
alcuni esempi, i bassorilievi e i tondi realizzati rappresentano anfore antiche
1
L’articolazione delle tematiche sviluppate in questo contributo è stata impostata
durante lo svolgimento del dottorato di ricerca in Civiltà tardoantica e altomedievale (XVIII
ciclo) svolto presso il Dipartimento di Studi classici e cristiani dell’Università degli Studi di
Bari (2003-2005) che ha avuto come titolo: Merci e commerci in Apulia et Calabria: le
anfore. Ringrazio D. Nuzzo per gli insegnamenti e le continue rettifiche di metodo, utili incentivi
per una lettura ‘critica’ delle fonti archeologiche. A G. Volpe e P. Arthur sono grato per le
indicazioni bibliografiche specifiche. 2
Berger-Luckman 1969, 58.
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stilizzate: una scelta ideologica che sembra confermare il forte collegamento
con la funzione principale che questo oggetto aveva nelle società passate,
cioè quella di contenitore da trasporto adattabile a qualunque tipo di contenuto,
e che si è conservata simbolicamente fino ai giorni nostri.
Che l’anfora rappresentasse il contenitore per antonomasia nell’antichità
è confermato oltre che dai numerosi dati archeologici anche da una
serie di fenomeni di imitazione della forma di questi manufatti con dimensioni
miniaturistiche. Le imitazioni più comuni sono quelle realizzate in ceramica,
impiegate anch’esse per contenere derrate o merci svariate con la
differenza di non essere destinate al trasporto su lunghe distanze. Numerosi
sono gli esempi di „anforette” provenienti da contesti abitativi o attestate nei
corredi funerari in diversi siti del bacino Mediterraneo3
.
Nell’ambito dei contenitori di vetro si conoscono una serie di forme,
definite „anforischi” e/o „anfore di vetro”, che imitano morfologicamente le
anfore con dimensioni comprese tra i 5 e i 15 cm e una capacità compresa
tra 1 acetambolo e 1 emina, destinati per contenere unguenti, farmaci, aromi
e spezie4
. Un ulteriore collegamento con le anfore ceramiche è dato anche
dal contenuto, che anche per alcuni di questi contenitori è stato appurato essere
il garum
5
. Le anfore in vetro erano inoltre muniti di uno „spruzzatore” o „pipetta”,
una specie di coperchio allungato che consentiva l’estrazione di modiche
quantità del prodotto contenuto. I dati sulla fabbricazione di questi
piccoli oggetti vitrei fanno propendere, anche se in maniera del tutto ipotetica,
a officine regionali ubicate in Africa settentrionale6
, capaci di commercializzare
i propri prodotti, anche se in maniera esigua e attraverso rotte di
cabotaggio, lungo la costa ionica-adriatica orientale e lungo quella occiden-
3
Pitcher 1987, 35, Fig. 41; Panvini 2002, 61, Fig. 2. Particolari risultano essere le
imitazioni di anfore miniaturistiche documentate come elementi di corredo tombale nel sito
di Siga in Alegeria, conservate presso il Museo di Aïn Temouchent e che rappresentano in
scala il modello delle anfore prodotte nella regione di Détroit, classificate come Ramon
Torres 11.2 e 12 (Ramon Torres 1995, Laporte 2006, 2565). Un’anfora miniaturizzata che
riproduce modelli delle Dressel 2-5 è stata documentata tra gli elementi di corredo di una
tomba durante le indagini condotte a Roma, da viale della Serenissima a via Andrulli
(Cometti 2006, 287, Fig. II.389). Un ulteriore esempio da Nakovana Cave con iscrizione
graffita in greco (Kirigin 2006, 24, Fig. 9). 4
Taborelli 2003 con bibliografia di approfondimento e Maccabruni 2005. Tra i
vari contenuti è anche contemplato il silfio. Si veda anche Sternini 2001, 336. 5
Taborelli 1993.
6
Le ipotesi sono focalizzate sull’area costiera di Thaenae come centro di riferimento
(Taborelli 2003, 269).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 121
tale e settentrionale del Mar Nero7
. L’ambito cronologico provvisoriamente
proposto è quello compreso tra i primi e gli ultimi decenni del I sec. d.C. per
una merce „confezionata” per scambi fiduciari inseribili nei generi „di lusso”,
viste le dimensioni e le modalità della sua diffusione8
.
La forma di anfora usata per realizzare un vaso in bronzo e poggiante
su tre sostegni a forma di zampa ferina su alta base, rinvenuto a Pompei, è
giustificabile in funzione del fatto che il recipiente stesso, caratterizzato per
la presenza di un profondo incavo sulla superficie esterna, fosse impiegato
per poter mantener il vino caldo, attraverso l’inserimento della brace nell’apertura,
oppure per l’inserimento di neve pressata per raffreddare la bevanda9
.
Utilizzata come vaso cinerario per i riti funebri è invece l’anfora in
alabastro esposta al Museo Provinciale „F. Ribezzo” di Brindisi10 e datata al
III-II sec. d.C. (Fig. 2). L’anfora imiterebbe il modello delle anfore rodie
prodotte tra il IV e il II sec. a.C. e adibite al trasporto del vino, attestata in
diversi contesti funerari e abitativi nei territori settentrionali della Puglia11.
Un’anfora votiva realizzata in piombo è stata rinvenuta a Altenburg
nel 1982 ed è attualmente conservata presso il Museum Carnuntium. Si tratta
di un dono votivo in forma di anfora, composta da due metà fuse separatamente;
tre paia di fasce orizzontali ornano il corpo del vaso12.
Tra gli scopi dei pellegrini che visitavano i luoghi sacri vi era quello
di portare con sè qualche oggetto „benedetto” – eÙlog…a in greco – che ricorda
il pellegrinaggio e che al momento del bisogno servisse come protezione
o cura. Tali oggetti servivano anche a contenere l’olio delle lucerne
che illuminavano i luoghi sacri o l’acqua di fiumi legati al luogo di culto.
Sono anche indicati con il nome di ampullae e solitamente sono realizzati in
7
Più rare risultano le attestazioni sul versante occidentale con gli esemplari documentati
ad Albenga e a Tripoli. Si veda il „Catalogo degli esemplari in vetro” in Taborelli
2003, 262-266. Un esemplare da Salona, conservato presso il Museo Archeologico di Split
(Kirigin-Marin 1989, 73). Esempi anche a Budva (Montenegro) in Marković 2003, 17, Sl.
15. Ulteriori esempi sono forniti dai contesti di Pompei: Casa di Giulio Polibio (IX, 13, 1.3)
in De Carolis 2004, 200 e Boriello 2004, 212 (imitazione del contenitore LR 4). 8
Taborelli 2003, 159 e 269. Datato al periodo ellenistico risulta invece essere
l’esemplare scoperto all’interno della della Tomba degli ori a Canosa (Corrente 1992, 343). 9
Liberati 2008.
10 Marinazzo 1992, 48-54.
11 Dalle tombe della necropoli in località Serpente ad Ascoli Satriano, conservate
presso il Museo di Foggia (Volpe 990, 233-235). Altri esempi provengono da Ordona e
Canosa (Volpe 1990, 235-239; De Stefano 2008, 117) e in diversi siti del territorio di
Brindisi (Aprosio 2008, 298-300). 12 Buora-Jobst 2002, 273.
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ceramica, metallo o vetro. Molto evidente risulta l’imitazione di questi piccoli
contenitori mutuata dalle forme delle anfore, conservando nel modellino
anche le anse e il puntale13.
2. Anfore e archeologia della produzione
La lettura che gli archeologi applicano alle anfore parte dalla duplice
considerazione che fanno di questi oggetti: prodotti dei cicli di produzione
ceramica e messi in commercio in quanto tali e „fossili guida” dei meccanismi
di distribuzione, di commercio e di consumo delle derrate alimentari
contenute14.
Con il termine latino amphora15, che deriva a sua volta dal greco
¢mforeÚj e ¢mfiforeÚj si indicava letteralmente „un vaso portato da ambedue
le parti”16 e quindi un tipo di contenitore munito di due anse che poteva
essere sollevato e trasportato, adibito al trasporto di derrate di largo
13 Le ampolle in metallo provenienti dalla chiesa di Monza, dalla Chiesa del santo
Sepolcro a Gerusalemme e da Santa Mena (Abu Mina, ad ovest di Alessandria in Egitto)
sono stati oggetto di studio in occasione di una mostra. Si veda: Israeli-Mvoran 2000, 201-
207 e 226. 14 La possibile identificazione di anfore ispaniche rappresentate nel pavimento
musivo del tepidarium delle terme di Ercolano è stata posta in relazione con il commercio
di olio, garum e vino nel territorio campano (López Monteagudo 2001-2002). Si veda in
generale: Pesavento Mattioli 2000 e Bruno 2005. Per il rapporto con i cicli di produzione su
dati ricavati da studi archeometrici, relativi alla produzione di anfore italiche, si veda
Olcese 2006, 529-531. Riflessioni sulla identificazione dei „consumatori” negli studi ceramologici
in Alcock 2006, 583. Ricostruzioni sul „commercio a lunga distanza” grazie allo
studio delle anfore in Majcherek 2004 (il caso di Alessandria, Egitto). Dubbi sull’utilizzo
delle anfore e della ceramica come „marcatori” della produzione e della distribuzione dei
beni alimentari su base economica sono stati avanzati in Vera c.s. 15 Per un’analisi completa delle attestazioni dei termini amphora, amphorula e
amphorarius nelle fonti letterarie si rimanda a Rossi Aldovrandi 1997, 11-28. Si veda anche
Scheibler 2003, 33. 16 Le parole greche ¢mforeÚj e ¢mfiforeÚj accompagnate da un ideogramma
raffigurante un’anfora a due anse e collo stretto (∗209) sono attestate su tavolette d’argilla
scritte in lineare B a Micene. Sono, infatti, conosciute anfore prodotte in Grecia e diffuse in
Italia meridionale e in Egitto datate al periodo miceneo (seconda metà del II millennio
a.C.). Le più antiche testimonianze epigrafiche sull’impiego di anfore o di recipienti simili
in terracotta, utilizzati come contenitori da trasporto, risalgono alla fine del III millennio
a.C. e provengono dalla Mesopotamia (scavi di Ebla) e dalla Siria (Ugarit). Si veda in generale
Panella 2002, 623.
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 123
consumo quali vino, olio17, aceto18 e più raramente birra19 e latte20, i prodotti
della lavorazione del pesce21 o il pesce stesso22 oltre che frutta23, legumi,
17 Per la produzione dell’olio e del vino nell’antichità, con riscontri nelle fonti
archeologiche, si veda Brun 2003. 18 Romano 2001, con bibliografia specifica sull’uso dell’aceto nell’antichità e sulle
attestazioni del termine nelle fonti. 19 Uno studio sull’evoluzione tipologica ed epigrafica delle anfore prodotte in
Catalogna dal VI al I sec. a.C. ha permesso di chiarire il contenuto di questi contenitori che
in maggior misura dovevano trasportare birra e in minor misura il vino (Sanmartí-BragueraMorer
1998). Lo scavo del castello di Feldberg ha permesso la classificazione di diversi
frammenti di anfore attribuibili a varie forme importate e alcune imitate, in uso dalle legioni
romane stanziate intorno al limes germanico; le Dressel 20, ad esempio, potevano essere
usate anche come contenitori di birra (Ehmig 2001). 20 Una testimonianza iconografica è fornita dal mosaico pavimentale del Palazzo
Imperiale di Costantinopoli, dove è rappresentata una scena di mungitura di capre utilizzando
direttamente anfore per contenere il liquido (D’Andria 1969, 108, Tav. LVIII, Fig. 16). 21 La produzione di salse di pesce venne ‘industrializzata’ dopo che i romani conquistarono
la penisola Iberica e successivamente si diffuse anche in Lusitania (LagostenaBernal-Arevalo
2007). Studi specifici per la Spagna: Étienne-Mayet 2002; per la Lusitania:
Edmonson 1987; Bernal 2006. Per le esportazioni da tutta la penisola Iberica nell’area
nord-ovest dell’Europa si rimanda a Martin Kilcher 2003. Verso il IV e V secolo la zona di
Cadice (Di Giovampaolo 2005; Bernal 2008) ha quasi ceduto il ruolo dominante delle
produzioni all’ Africa del Nord e poi al Vicino Oriente (Ponsich 1988; Ben Lazreg et al.
1995). Il prodotto della lavorazione del pesce più famoso nel mondo antico era il garum
realizzato con uova, interiora e pezzi di pesce macerati nel sale (Brecciaroli Taborelli 2005,
35-36). Diversi comunque erano i prodotti ottenuti dalla lavorazione del pesca: la muria,
l’hallex (alex o allec), il liquamen, la lympha chiamata anche lumpha, lympa, lumpa e il
laccatum (García Vargas 1998, 200-205; Delussu-Wilkens 2000; Desse Berset-Desse 2000,
84-95; Liou-Rodríguez Almeida 2000; Pesavento Mattioli-Buonopane 2002). 22 Studi archeozoologici sul contenuto delle anfore Dressel 7, 12, 14 dai relitti Sud
Peduto 2, Cap Béar 3, Saint-Gervais 3 hannoconfermato la presenza di lische di pesce, con
tracce di preparazione (Desse Berset-Desse 2000, 75-82). Le analisi condotte sulle anfore
Almagro 51C, 51A-B e 50 che costituivano il carico del relitto Punta Veccia 1 (Corsica)
hanno dato risultati relativi alle tracce di sostanze e di resine contenute all’interno che
porpendono per un contenuto di pesce (Leroy de la Brière-Meysen 2005, 89). 23 Le mele cotogne erano conservate nel miele secondo Columella (R.R., XII, 47,
2-4). Apicio (R.C., I, 12, 4) ci informa anche della pratica della conservazione delle mele
cotogne nel miele e nel defrutum. Anche Plinio suggerisce la conservazione all’interno del
miele (N.H. XV, 60). Un commento a queste pratiche è in Russel 2001. Le Dressel 21-22
sono anfore che in antico venivano denominate cadi (il termine cadus era utilizzato da
Plinio per indicare contenitori destinati al trasporto della frutta: N.H. XV, 12, 42; XVI, 21,
82) e alcuni tituli picti rivelano che si trattava di mele provenienti da Cuma, di ciliegie o
prugne secche (Callender 1965, 13-14).
124 Giacomo DISANTAROSA
frutta secca24, olive25, miele26, molluschi, oli profumati, carni27, resine28,
pigmenti29, metallo30, ecc.
La molteplicità delle sostanze, delle derrate e dei liquidi a cui erano
destinate le anfore permette di allargare i dati ricostruttivi dell’economia ad
una serie di sfere di impiego e di commercio non esclusivamente rivolte ai
consumi alimentari ma variegati rispetto alle varie esigenze del sistema
sociale, come per esempio l’utilizzo di oli particolari destinati ad alimentare
le lucerne per l’illuminazione31 e oli per la fabbricazione dei profumi32. Il
rapporto esistente tra le anfore e il loro contenuto, come nel caso dell’olio
destinato all’illuminazione, spiegherebbe ipoteticamente in alcuni casi la scelta
24 Anfore destinate al trasporto di frutta secca o anche per conserve di frutta sono
le Kingsholm 117 (Cipriano-Ferrarini 2001, 72-73; Martin Kilcher 1994, 434). 25 Esemplificativo è il bassorilievo di un tunicatus che sorregge un cesto nell’atto
di travasare olive all’interno di anfore, conservato al Museo di Lamourguier (Dellong 2002,
268, Fig. 235). L’anfora Schörgendorfer 558 è classificata proprio come anfora da olive, così
come rivelano i tituli picti che si riferiscono a olive nere (nigrae) o verdi (albae) (Muffatti
Muselli 1987, 194-197; Cipriano-Ferrarini 2001, 71). Alcune testimonianze epigrafiche
apposte su LR 2 si riferiscono ad un contenuto di olive (Karagiorgou 2001, 146). 26 Si veda in generale per l’Archeologia del miele: Bortolin 2008 e in part. 124-128
il riferimento alle anfore recanti tituli picti che segnalano il trasporto di tale prodotto. 27 Per una storia sull’alimentazione basata sul consumo delle carni con riferimento
ai contenitori e alle trasformazioni delle culture alimentari dall’Età Classico a quella Altomedievale,
si rimanda a Guzzo-D’Angela-Sebastio 1988. 28 Le analisi effettuate su campioni di anfore trovate a Tomis nel Ponto, databili tra
tardo VI e VIII sec., hanno permesso di identificare le sostanze contenute all’interno con
resine e prodotti vegetali semilavorati da usare per aromatizzare alimenti o profumi (Bernal
Casasola 2004, 321-378). Si veda anche il carico di anfore del relitto profondo Heliopolis 2
(Joncheray-Long 2002, 147, Fig. 11). Bibliografia di approfondimento sui casi di resina da
pino, terebinto di Chio, mirra, incenso e styrax in Toniolo 2007, 94. 29 Anfore con un pigmento rosso provengono dall’Agorà di Atene (Lawall 2002).
Esemplari che costituivano il carico del relitto di Mljet in Croazia presentavano le
medesime caratteristiche di contenuto (Radić Rossi 2005). 30 L’attività estrattiva del rame a Cipro e l’uso di anfore per il trasporto in Jacobsen
2007. 31 I dati provenienti dalle anfore e legati ai combustibili illuminanti soprattutto per
il periodo tardoantico negli edifici di culto cristiano sono stati sintetizzati in Pavolini 2001-
2002, 117-121. Fonte antica è Plinio, N.H. XVII, 93-94, il quale cita anche l’olio prodotto
lungo le coste dell’Africa occidentale (N.H. XV, 16) come prodotto scarso e scadente,
„buono solo per l’illuminazione”. Per l’utilizzo dell’olio nell’illuminazione si veda anche
Sangiovanni 2008. 32 Mattingly 1990; Brun 1998; Id. 1999; Id. 2000; Id. 2003, 170-176. Utilizzo dell’olio
per la fabbricazione dei profumi a partire dall’età del Bronzo in Grecia e a Creta
(Dubur-Jarrige 2001).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 125
della rappresentazione di anfore sul disco delle lucerne33. Il vino e l’olio erano
anche impiegati nel ciclo della filatura della lana attraverso un processo di
tintura che già avveniva direttamente sui capi bestiari, sfregando il vello e
coprendolo con queste sostanze prima della tosatura34.
Al trasporto dell’allume erano destinate particolari anfore prodotte a
Lipari, a partire dal secondo quarto del I sec. a.C. fino a tutto il IV sec. d.C.,
e conosciute come ‘Richborough 527’35. Questa particolare merce era utilizzata
nella medicina e soprattutto per la concia delle pelli, per la tintura e la
sbiancatura dei tessuti e per l’isolamento dal fuoco delle strutture lignee36. A
Taranto, dove è testimoniata in antico una produzione di lana e tessuti, nel
deposito di scarico di Palazzo delli Ponti sono stati rinvenuti frammenti
attribuibili a tali anfore37. M. Silvestrini in un recente studio su epigrafi funerarie
provenienti da scavi urbani del 2005 ha stabilito una connessione tra
i Nearchi presenti a Lipari e quelli testimoniati attraverso questi documenti
a Taranto e ad un interesse di questi ultimi nell’importazione dell’allume,
finalizzata alla produzione tessile38.
Le diverse aree geografiche di produzione influirono sulla forma delle
anfore, anche se conservarono per secoli caratteristiche morfologiche
33 Molteplici sono gli esempi di rappresentazioni di anfore sulle lucerne. Tra questi
si possono citare i ritrovamenti all’interno della necropoli di Sofiana in Sicilia (Bonacasa
Carra-Panvini 2002, 166). Della stessa tipologia e con la medesima rappresentazione risulta
essere l’esemplare rinvenuto nel 1880 come corredo all’interno di una sepoltura a Roquevaire,
Lascours, nei pressi di Marsiglia (Narasawa 2005, fig. 1295); nella necropoli di Potenza
Picena (Potentia), presso Porto Recanati (Ramadori 2001, 135, fig. 54b). Un altro esempio è
fornito da una lucerna rinvenuta a Grumentum in Basilicata (Marletta 1997, 246, n.60) e da
un esemplare decontestualizzato tra il territorio di Bari e Taranto (Ferrandini Troisi 1992, 42). 34 Donati-Parrini 2002, con riferimento alle fonti.
35 Per la storia della classificazione e la tipologia di questa anfora: Pearce 1968,
177-124, Pl. LXXI, 527 e Borgard-Cavalier 2003, 96-98. Le analisi petrografiche (Picon 2003)
hanno confermato insieme al rinvenimento di fornaci una produzione delle Isole Eolie in
Sicilia (Borgard-Cavalier 1994) e in particolare il sito di Portinenti (Cavalier 1994). A
Padova sono stati documentati contenitori da trasporto con caratteristiche dell’impasto simile
nella composizione degli inclusi (ossidiana) e per tipologia; tali dati macroscopici sono stati
supportati da analisi archeometriche che hanno confermato Lipari come centro di produzione
(Cipriano-De Vecchi-Mazzocchin 2000, 193). 36 Borgard 1994. Plinio descrive dell’allume, cioè solfato doppio di potassio e di
alluminio idrato, i diversi utilizzi in età antica (Plin. N.H., XXXV, 52). Per ulteriori approfondimenti
si rimanda a Cipriano-De Vecchi-Mazzocchin 2000, 195 e Borgard-Brun-Picon
2005. 37 Disantarosa 2003-2005, 407.
38 Silvestrini 2007, 397-398.
126 Giacomo DISANTAROSA
determinate dalla funzionalità39: un collo fatto in modo da poter essere sigillato
con un tappo, una spalla più o meno ampia impostata su un corpo per lo
meno cilindrico, il fondo piatto o a puntale per adagiare il contenitore in uno
strato di terra, di sabbia, in pavimenti lignei forati (Fig. 3), come quelli documentati
nei magazzini portuali di Classe a Ravenna40, o per facilitare l’impilaggio
nelle stive delle imbarcazioni, e infine le anse, generalmente due, di
forme molto differenti.
Le fasi di fabbricazione e di cottura delle anfore rientrano nei processi
generali applicati per la realizzazione di tutti i manufatti ceramici lavorati al
tornio. All’interno del cosiddetto ‘ciclo della ceramica’41 le singole parti che
componevano l’anfora venivano realizzate in maniera separata al tornio42 e in
parte anche manualmente, se si considerano le anse. In una seconda fase venivano
assemblate tra loro con „toppe” di argilla43. In corrispondenza dell’attacco
delle anse, infatti, è possibile registrare spesso la presenza di ditate
dei ceramisti lasciate in seguito alla pressione esercitata per fissare i due
manici al corpo del contenitore44. Per meglio rafforzare l’attaccatura delle
anse su un esemplare di Africana IID rinvenuta a Port-Vendres è stato utilizzato
un ‘tenone’ posto in corrispondenza dell’attaccatura superiore che attraversava
completamente la parete del collo45.
39 Panella 2002, 623. Si veda anche Menichetti 2002, con descrizione delle varie
parti morfologiche di cui è composta un’anfora e Bruno 2005, 343-354. 40 Cirelli 2007, 306-307, Figg. 8-10; Augenti et al. 2007, 266-267, Fig. 13b. 41 Gli aspetti generali della produzione ceramica in: Milanese 2002; Picon 2004;
Saracino 2005, 45-49 e Cuomo di Caprio 2007. 42 La modellazione del labbro, in alcuni casi, era ottenuta attraverso la svasatura
dell’imboccatura da un vaso di minore dimensione, come è attestato delle Knossos 18
(Cipriano-Ferrarini 2001, 76), per le Africane I, o, nel caso delle Tripolitane caratterizzate
dall’orlo modanato a “S”, attraverso l’aggiunta di argilla che veniva sagomata su una base
realizzata precedentemente (Bonifay 2004, 44 con riferimenti a studi di etnografici). 43 Schuring 1984, 153-155; Sciallano-Sibella 1994, 12-13, con illustrazioni delle
fasi. Si veda anche Caravale-Toffoletti 1997, 12-13 e Toniolo 2000, 2-3. I segni degli assemblaggi
su numerosi esemplari di Africane I e II rinvenute nella necropoli di Pupput sono
considerati come testimonianza di questa pratica. M. Bonifay è sostenitore, sulla base dei
numerosi esempi archeologici, dell’ipotesi dell’alto tasso di fragilità dell’attacco delle anse
al corpo ceramico delle anfore (Bonifay 2004, 44). 44 La presenza di ditate osservate sui bolli delle anse delle anfore prodotte nelle
fornaci di Brindisi nel I sec. a.C. sono la dimostrazione delle varie fasi della ‘catena di
montaggio’ in cui erano impegnati gli schiavi che producevano questo contenitore: le anse
quindi venivano realizzate, poi bollate e successivamente attaccate all’anfora (Manacorda
2008, 97). 45 Colls et al. 1977, Fig. 62.11.
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 127
Queste operazioni dovevano essere svolte con la massima cura poiché
per qualsiasi spostamento futuro si ricorreva alla funzionalità delle anse, il
cui punto di giuntura qualora non avesse sopportato le variegate sollecitazioni,
rischiava di rompendosi e mettere in pericolo la conservazione delle
merci trasportate46. La scena di tribunale rappresentata su un affresco di
Ostia (Fig. 4), nella casa di Ercole (II sec. a.C.), con un’anfora rotta oggetto
della disputa, è una chiara dimostrazione di quale importanza ‘giuridica’
rivestiva il contenuto trasportato47. Uno studio pubblicato nel 2004 effettuato
dalla Facoltà di Zagabria, attraverso il programma informatico SESAM, ha
sottoposto diversi modelli di anfore, differenti per periodi e aree di produzione,
a sollecitazioni di peso verticali, orizzontali e oblique, dimostrando i
diversi livelli di elasticità dei contenitori in corrispondenza delle anse e dei
puntali48.
Per l’assemblaggio delle singole parti e per l’essiccazione, operazione
quest’ultima che avveniva in un luogo areato e ombreggiato per circa una
decina di giorni, venivano utilizzati, come è testimoniato per le anfore Dressel
20 (Fig. 5), alcuni supporti a forma di bacino realizzati appositamente per
migliorare le fasi di lavorazione delle anfore che solitamente presentavano
dimensioni maggiori rispetto agli altri oggetti ceramici49. Più comunemente
per l’essiccazione le anfore erano poggiate a terra, su un piano pavimentale
senza rivestimenti, un battuto di terra, sistemate capovolte al di sotto di
strutture coperte e arieggiate: una traccia è costituita dalla presenza di segni,
solchi e piccole depressioni, oltre che da buchi presenti sulla superficie superiore
dell’orlo di alcuni esemplari di contenitori di produzione africana
46 Attraverso l’utilizzo delle anse venivano assicurate le operazioni di sollevamento
e di trasporto e di svuotamento delle sostanze contenute. Particolari risultano le anse
della cd. „basket-handle” amphora del periodo Arcaico-Classico prodotta a Cipro, montate
con un andamento sormontante con lo scopo di facilitare il trasporto (Leidwanger 2005-2006).
Una fonte iconografica di riferimento è quella del Dittico del Duomo di Milano dove è possibile
osservare un personaggio che sorregge sulla spalla un anfora, con la presa concentrata
sull’ansa, mentre versa il liquido in essa contenuta all’interno di dolia (Mirabella Roberti
1984, 215, Fig. 214; David 2007, 607-608, Fig. 6); ancora in una scena nel riquadro inferiore
del bassorilievo della stele di Q. Veiquasius Optatus da Cherasco (da ultimo: Verzár
Bass 2005, 244, 256), dove è evidente l’atto del sollevamento di un’anfora per mezzo delle
anse, sorretta sulla spalla e l’operazione di travaso del liquido in un grande otre in pelle su di
un carro (Brun 2003, 100-104). 47 Chamay 2001, 104; Falzone 2001.
48 Si tratta dei tipi Py 3b, Lamboglia 2 e Dressel 20: Radić Rossi et al. 2004 e Ead.
2005-2006. 49 Étienne-Mayet 2004, 59, Fig. 19.
128 Giacomo DISANTAROSA
(Fig. 6) rinvenuti negli strati di riempimento del lacus vinarius della villa di
Giancola (Brindisi)50.
La fase successiva consisteva nel cuocere le anfore all’interno di
fornaci di dimensioni medio-grandi con un piano forato sostenuto solitamente
da un pilastro centrale, come nei siti produttivi documentati in Africa
settentrionale e in Spagna meridionale51. Le fornaci non erano adibite alla
cottura di un solo prodotto ma spesso erano riutilizzate per diversi manufatti
o usate contemporaneamente per oggetti differenti. Sono stati scavati in Portogallo
i contesti di Porto dos Cacos (Alcochete) e di Quinta do Rouxinol
(Seixal), le cui indagini archeologiche stratigrafiche condotte a partire dal
1985 sino al 1991, hanno permesso di documentare la presenza di fornaci
adibite contemporaneamente alla cottura di anfore del tipo Almagro 50 A-B
e Almagro 51 C insieme a numerose varianti morfologiche di ceramica da
fuoco52.
La cottura in forno durava circa 24 giorni. Il tempo maggiore era
invece destinato al raffreddamento naturale del forno, calcolato all’incirca in
15 giorni, dopo i quali si poteva intervenire per smontare la calotta ed estrarre
il prodotto pronto per essere utilizzato. È stato calcolato che un forno
di 70 m3
poteva contenere circa 1000 anfore su sette o otto livelli e che per
la cottura venivano impiegati circa 60 m3
di legna53.
50 Cocchiaro et al. 2005, 426. 51 Gli esempi riguardano le diverse produzioni, relative all’Africa proconsolare,
alla Tripolitania e alla Mauretania Cesariense (Bonifay 2004, 44, con bibliografia specifica).
Per i siti indagati nella regione betica (Puerto Real, Jerez de la Frontera e El Riconcillo
ad Algésiras si rimanda a Étienne-Mayet 2002, 153-154. Non mancano attestazioni di
fornaci ad archi paralleli rinvenuti in Lusitania e nei territori della Betica orientale (ateliers
di Pinheiro e di Abul): Étienne-Mayet 2002, 154-158. 52 Raposo et al. 2005. La ricerca è stata affrontata considerando l’importanza dei
centri produttivi di ceramica all’interno di un sistema articolato dell’economia antica di
questa regione, come per esempio quello basato sulla produzione della salsa di pesce destinata
ai mercati del bacino del Mediterraneo e contenuta nelle stesse anfore prodotte in
questi siti. Altro esempio è quello relativo alle due fornaci indagate nel territorio di Albinia
(Si) attive alla metà del I sec. a.C. (Olmer-Vitali-Calastri 2001-2002), destinate contemporaneamente
alla produzione di diverse tipologie di anfore (le cd. greco-italiche, le Dressel 1,
le Dressel 2-4 e quelle a fondo piatto). All’interno delle fornaci per la ceramica comune di
fase tardo-repubblicana ad Albinia (GR), sono stati documentati anche contenitori Dressel 1
e Dressel 2-4 (Cottafava 2006). Produzioni miste anche a Carmes in Francia meridionale
(Bizot-Gantès 2005, 512-513). 53 Panella 2001, 187. La vicinanza a zone adibite allo sfruttamento della viticoltura
nei pressi di aree boschive è stato documentato nel caso dell’impianto per la produzione di
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 129
Un sottile strato di bitume, resina o pece, caratterizzava le pareti
interne delle anfore adibite al trasporto del vino o della salsa di pesce54.
Le officine ceramiche e nello specifico gli ateliers che fabbricavano
anfore erano impiantati strategicamente in modo da sopperire alle esigenze
che le fasi di lavorazione avrebbero richiesto. La loro ubicazione, inoltre,
non prescindeva dal considerare quelle aree potenzialmente proiettate verso
uno sviluppo dell’economia rurale (o conserviera) di una regione, così da
consentire una maggiore distribuzione sui mercati, vicini e lontani, delle eccedenze55.
Le stesse strutture inoltre dovevano possedere requisiti di comunicazione
diretta, in prossimità di approdi per le navi, o indiretta, sfruttando
corsi d’acqua navigabili o alla viabilità terrestre56.
Questo è il modello a cui rimandano diverse realtà produttive antiche:
le fornaci di Visellius a Giancola, nei pressi di Brindisi57, situate in un’area
in prossimità del mare, compresa fra la linea di costa e l’antico tracciato
viario che in età imperiale assume il nome di Via Traiana, che realizzavano
anfore olearie tra il I sec. a.C. e I sec. d.C.58; la fornace chiusina di Marcia-
ceramica comune, lucerne e anfore Galliche 4, rinvenuto a Clots de Raynaud, a Sallèles
d’Aude, nei pressi di Narbonne (Laubenheimeir 2002, 567-582). 54 Risultati di ananlisi chimiche-organiche in: Martínez Maganto-Petit Domínguez
1998 e Petit Domínguez-Martínez Maganto 1999. In generale si veda Brun 2003, 68-69,
con riferimento agli autori antichi. 55 In generale su tale rapporto si vedano le riflessioni in Finkielsztejn 2006.
56 Le fornaci di S. Arcangelo sulla Via Emilia e quelli ubicati tra Rimini e Riccione
sulla Via Flaminia, adoperate per la cottura delle anfore a fondo piatto, sono state impiantate
anche in rapporto alle agevolazioni che avrebbero fornito i collegamenti viari (Stoppioni
1993, 19-24). Un ulteriore riferimento è fornito dal sito rinvenuto nei pressi di Albinia
(Orbetello, GR), collegato con la via Aurelia, con il fiume Albenga e con una struttura
portuale (Cambi 1994; Vitali et al. 2005). 57 Per un quadro generale della ricostruzione storico-archeologica del sito di
Giancola si veda: Manacorda 1988, 91-108; Id. 1990, 375-415; Id. 1994, 3-59; Id. 1994a,
277-284; Id. 1995, 143-189; Id. 1998, 319-331; Id. 2001 e Manacorda-Pellecchi c.s.. 58 I primi risultati di uno studio relativo alla tipologia delle anfore brindisine sono
stati affrontati da P. Palazzo (cfr. Palazzo 1988 e Ead. 1989). La stessa studiosa in
collaborazione con M. Silvestrini hanno prodotto una pagina web sul sito del Dipartimento
di Studi Classici e Cristiani dell’Università di Bari: Le anfore Brindisine,
http://www.dscc.uniba.it/Anfore/Index.htm dove alla classificazione tipologica viene affiancata
una ricostruzione storica-prosopografica basata sullo studio dell’onomastica ricavata
dai bolli presenti sulle anse delle stesse anfore. Vedi anche Palazzo-Silvestrini 2001,
57-107, Tavv.XVI-XXII e Palazzo 2005, Ead. 2006. Per la diffusione di queste anfore si rimanda
a Manacorda 2001a, 393-394 e Id. 2004. Anfore Brindisine (Apani V) sono presenti
anche tra il carico del relitto Escombreras 2, naufragato nei pressi dell’omonimo isolotto
nei pressi di Cartagena, nella Spagna meridionale (Gianfrotta 2003).
130 Giacomo DISANTAROSA
nella che produce anfore del tipo Dressel 159; gli ateliers delle Dressel 2-4 di
Cosa, di Fondi-Terracina, di Mondragone-Sinuessa, Santo Stefano al Mare
sul vesante tirrenico, di Torre di Palma presso Fermo sul versante adriatico60
e ad una serie di centri manifatturieri della Spagna61 o della Francia62.
In Tunisia un programma di prospezioni svolto sul litorale, nei territori
regionali di Hadrumentum/Sullecthum, Sullecthum/Acholla e nelle aree
interne di Mactaris e Sufetula, ha permesso l’individuazione di una ventina
di officine anforarie attive datate tra il II e il VI sec. d.C. e di comprendere
in maniera più articolata il forte legame e l’iterazione tra l’organizzazione
agricola e le singole aree produttive63. Il panorama della geografia della produzione
ceramica in Tripolitania e in Mauretania Cesarensis appare per linee
generali simile a quello dell’Africa Proconsolare: le poche officine individuate
sono situate in prossimità dei principali centri oleicoli nel Cussbat,
Gasr el Dauum e nei territori compresi tra Tarhuna e la linea di costa o tra
Gefara e la regione pre-desertica. I risultati dell’analisi archeometriche hanno
permesso di tracciare una carta degli impianti produttivi di anfore in Africa
in rapporto alle aree di approvvigionamento della materia prima e delle produzioni
tipologiche sulla base dell’utilizzo di diversi degrassanti, come i
fossili marini, maggiormente reperibili in prossimità della costa64.
Molte officine di anfore si trovavano in territori rurali o comunque
nelle aree suburbane e periferiche65, mentre altre vengono impiantate nei
pressi di porti, di agglomerati urbani importanti (Cosa, Marsiglia, Neapolis,
Hadrumentum, Thaenae, Sullecthum, Leptiminus, Nimes, Fréjus, Lione):
queste scelte locazionali sono basate su un’organizzazione che prevedeva
operazioni di travaso delle merci proprio nei pressi delle strutture portuali o
nei centri di stoccaggio urbani, prima di proseguire il proprio viaggio per
altre regioni66.
59 Pucci-Mascione 2003 e in particolare per le anfore: Lapadula 2003. Per la fornace
di Dressel 1 rinvenuta presso la villa nel territorio di Cropani Marina (CZ) si rimanda
al contributo di Aisa-Corrado-De Vingo 2000. 60 Panella 2001, 187, nota 44; Sandrone 2003.
61 Étienne-Mayet 2002, 152-177.
62 Desbat 2001; Marty 2003.
63 Mattingly 1988; Id. 1988a; Hitchner-Mattingly 1991; Bonifay et al. 2002-2003;
Bonifay 2004, 22-41. 64 Bonifay 2004, 26-30.
65 Alcuni interventi legislativi furono varati con la finalità di limitare la fabbricazione
di ceramiche e nello specifico di tegole in aree urbane: lex Coloniae Genitivae Iuliae
sive Ursoniensis (CIL I.2, 594). 66 Il sito esemplificativo di Marsiglia: Muséè des Docks Romains 1999.
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 131
Ogni area produttiva del mondo antico realizza e diffonde i „suoi
modelli” che sono distinguibili sulla base delle diverse articolazioni delle
singole parti che compongono il vaso67. All’interno delle relazioni tra i rapporti
commerciali ed economici è possibile cogliere il terzo fattore che determina
i modelli delle anfore: i fenomeni di imitazione, circoscritti soprattutto
a quei contenitori che trasportavano merci famose per la qualità. C.
Panella ha sottolineato come la codifica di questo fenomeno „… si carica di
quattro significati: zona di provenienza, merce contenuta, qualità e capacità
del contenitore”68.
Per la definizione dei modelli e delle tipologie hanno contribuito i
saperi artigianali e il “carattere funzionale” dell’anfora, legato al prodotto
che doveva contenere. Le sostanze liquide come il vino richiedevano contenitori
con il collo lungo e una imboccatura stretta per meglio governare il
flusso durante il travaso; le derrate semi liquide e pastose come le salse di
pesce richiedevano un collo lungo e largo; le anfore olearie sono caratterizzate
in genere da un collo basso e stretto e da un corpo globulare o affusolato
e, infine, per la frutta venivano utilizzati recipienti con il collo largo69.
Nell’evoluzione tipologica si assiste al fenomeno di ricerca delle forme che
tende a migliorare il rapporto tra peso a vuoto del contenitore e la sua capacità:
si passa quindi da anfore che pesano quasi quanto la merce trasportata,
caratterizzate da pareti spesse e da anse di grandi dimensioni, a modelli, per
esempio i ‘contenitori cilindrici di grandi dimensioni’ di produzione africana
del periodo tardoantico, capaci di trasportare la stessa o maggiore
quantità di merce in recipienti con caratteristiche tecniche migliorate70. La
nomenclatura delle diverse tipologie di anfore è stata individuata in seguito
67 Alcune riflessioni generali su queste problematiche vengono affrontate in
Panella 2001, 181-185 e Ead. 2002, 624-625. 68 Panella 2001, 182; Manacorda 2008, 103. Gli esempi di imitazione dei contenitori
da trasporto nel mondo antico sono innumerevoli. Tra i più importanti si possono
citare le Dressel 2-4 italiche (derivate a loro volta delle anfore di Cos) che vengono diffusamente
„copiate” dagli ateliers dell’Helvetia, della Spagna e della Britannia, oltre che da
quelli gallici; le Dressel 1 imitate dalle terraconesi Pascual 1. La Gallica 4 viene imitata nei
territori della Spagna Terraconese dalla Dressel 28 e più tardi dalla Dressel 30 in Mauretania
Cesariensis. 69 Panella 2002, 624.
70 Cfr. Zanini c.s. Riflessioni sul cambiamento delle forme delle anfore tra Tardoantico
e Medioevo sono in Sazanov 1997; Arthur 1999, Pasquinucci-Del Rio-Menchelli 1999,
Capelli-Lebole 1999, Berti-Renzi Rizzo 1999, Ermini Pani-Stasolla 2007, 547-552, Negrelli
2007. Un contributo con spunti di riflessione sulle relazioni esistenti tra sistema di produzione,
organizzazione e caratteri delle distribuzione nell’Alto Medioevo è in Gelichi 2007.
132 Giacomo DISANTAROSA
agli scavi e alle scoperte e fornisce l’idea dell’ampio repertorio di studi che
hanno permesso un inquadramento delle principali produzioni del mondo
antico71.
Una volta riempita l’anfora veniva chiusa con un tappo, realizzato con
diversi materiali, sul quale veniva fatta colare della pece o pozzolana in modo
da sigillare il contenuto ed essere pronta per il trasporto72. Diversi erano i
metodi e i materiali utilizzati per tappare le anfore. La pozzolana o il gesso73
da soli potevano sigillare i contenitori, com’è testimoniato soprattutto dai
relitti di navi affondate nel Tirreno74. Su alcuni esemplari si riscontrano iscrizioni
e segni a rilievo con valenza di bollo: si tratta nella maggior parte
dei casi di contrassegni anepigrafi, interpretati come tagliandi di garanzia
per la sicurezza del carico affidato al mercator75. Più raramente era utilizzato il
71 La prima restituzione grafica delle anfore di età romana fu proposta in Dressel
1879, 36-112 e 143-196. La tavola che lo studioso elaborò fu inserita nel volume XV, 2 del
CIL sotto la voce Instrumentum domesticum nella sezione Amphorae; in essa furono riuniti
i contenitori da trasporto recuperati dallo scavo del Castro Pretorio e dal Monte Testaccio a
Roma. Il Dressel, basandosi sui bolli e sulle iscrizioni, cercò di classificare le anfore cronologicamente,
mettendo in relazione i dati della ricerca puramente epigrafica con quelli
derivati dall’indagine archeologica. I dati acquisiti in seguito hanno talvolta smentito tale
impostazione, ma non hanno screditato questo primo tentativo organizzativo. N. Lamboglia
accorpò diverse tipologie con principi cronologici offrendo un „saggio di rifusione della
classificazione del Dressel” (Lamboglia 1955): oggi quell’intervento viene indicato come
„Rifusione Lamboglia”. F. Benoit rielaborò in maniera più precisa la parte dei tipi repubblicani
della tavola Dressel-Lamboglia. Per la storia degli studi si veda Dell’Amico 1987 e da
ultimo Bruno 2005, 359-364. Per la ricerca tipologia anforaria informatizzata e in rete si
veda: Williams 2007. 72 Beltrán Lloris 1970, 64-66; Benoit 1958, 26; Bost et al. 1992, 124. Oltre la calce
e la pozzolana per sigillare si faceva uso della pece, come testimoniano le anfore del relitto
della Secca di Capistello a Lipari (Gianfrotta-Pomey 1981, 152). Tra le fonti che fanno
riferimento a tale pratica si veda Col., R.R., XII,39. 73 Portale-Romeo 2001, 273, Fig. 144 (anfora tipo MRC2b con tappo in gesso rinvenuta
a Gortina). 74 Beltrán Lloris 1970, 72-75; Benoît 1952, 275-277; Tchernia et al. 1978, 38-39;
Laubenheimer 1990, 34; Paci 1981, 459, n. 70, Tav. XLVI, 1; Gianfrotta-Hesnard 1987,
393-432; Galli 1993, 124-125. Esempi di tappi in pozzolana sono stati attestati a Ustica
relativi al relitto tardo repubblicano Grotta Azzurra 1 (Volpe 2005, 13). 75 Hesnard-Gianfrotta 1989, 393-429. La realizzazione di queste „marche” doveva
essere realizzata tramite punzoni a matrice. Un esemplare in legno di una matrice per bolli
da apporre sulla pozzolana è quello recuperato a Cap Benat a Ibiza (Almagro-Vilar Sancho
1966). Punzoni lignei per i tappi delle anfore, pozzolana, placchette in piombo che dovevano
assumere la funzione di sigilli esplicativi per il materiale deperibile facevano parte del
materiale in dotazione a bordo delle imbarcazioni (Beltrame 2002, 40-41).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 133
sughero76, il legno77 o una pigna verde che, incastrata nel collo, aveva la duplice
finalità di serrare e aromatizzare il contenuto78.
I coperchi in terracotta erano sagomati attraverso l’uso di una matrice79
o del tornio80. I coperchi realizzati al tornio per le anfore di tradizione
punica del Golfo di Hamammet sono caratterizzati dalla presenza sulla superficie
inferiore di un gradino impostato in maniera perpendicolare, con la
funzione di fermo poiché non era prevista una sigillatura ermetica, evitando
rispetto al contenuto, un accumulo di gas o reazioni che potevano verificarsi
nel momento dell’apertura81. Nell’ultimo gruppo sono inclusi i coperchi sagomati
dalle pareti, dai fondi di altri recipienti oppure da tegole e coppi82.
76 Attestazioni di Africane II con tappi in sughero sui relitti di Giglio Porto (Parker
1992, 193), sul relitto di Cap Blanc (Parker 1992, 99) e su anfore Keay XXV del relitto
Heliopolis 1 (Parker 1992, 99). Si veda anche: Anstett 1976, 121-122; Auriemma 1997,
132, nota 16 (unico esemplare del relitto di Grado). Il relitto di età altomedievale rinvenuto
in loc. Bambina a Marsala presentava anfore con tappi in sughero (Purpura 1985, 129). Per
le anfore con tappo di sughero del relitto di S. Vito Lo Capo: Faccenna 2006, 39, Fig. 34. Si
veda inoltre Ciabatti 1984, 43, Fig. 15 (esempio di tappo in pozzolana e sughero rinvenuto
su di un collo di anfora Dressel 1, proveniente dal relitto dei Catini di Vada, Livorno).
Anfore di tipo Almagro 51C, del relitto «A» di Cala Reale (L’Asinara 1), a Nord della Sardegna,
sono state ritrovate con tappi di sughero recanti due piccoli fori, nei quali verosimilmente
doveva passare una cordicella per consentire una più agevole apertura (Spanu 1997,
112, Figg. 11-12). Nel relitto A di Cala Lazzaretto in Sardegna sono state documentate
anfore contenenti garum chiuse con tappi di sughero e questi ultimi bloccati da sigilli in
lega di piombo e argento (Riccardi 1986). Esemplari riferibili alle anfore Africana IIA e/o
Dressel 30 del relitto Monaco A (Mouchot 1970, 171). Documentato anche su un anfora di
produzione africana recuperata durante le ricognizioni subacquee presso Punta Ala (Bargagliotti-Cibecchini-Gambogi
2003, 5). 77 Desbat 1991, 319-336.
78 Maniscalco 1998, 73, Figg. 90-91.
79 La tecnica a stampo dei coperchi prevedeva l’utilizzo di una matrice nella quale
erano incisi in negativo i segni o le lettere necessarie al riconoscimento del fabbricante o
del prodotto sigillato (Panella 1998, 536-541; Ead. 2001, 177-196). 80 Chinelli 1991, 246, note 205-208, stabilisce per gli esemplari confrontati e provenienti
dai contesti di scavo di Aquileia un arco cronologico dall’epoca tardo repubblicana
al I secolo d.C. (cfr. anche Chinelli 1994). Alcuni esemplari sono stati documentati in situ
all’interno del collo di anfore Dressel 20 rinvenute nella Baia di Gonnesa sul litorale di
Cagliari, in Sardegna (Salvi 2002, 1140). 81 Tchernia 1998, 503-509; Tchernia-Brun 1999, 122-125; Bonifay 2004, 470-471.
82 Un esempio, tra i tanti, è costituito dai coperchi provenienti dal relitto Yassi Ada
II: Bass-van Doorninck 1982, 160, Figg. 7-8. Per questo tipo di chiusure cfr. anche Auriemma
1997, 132, nota18 e Fig. 4, con bibliografia relativa (relitto di Grado). Attestazioni anche
per alcune anfore prodotte nel Magdalensberg (Schindler Kaudelka 2000, 392). A S. Antonino
di Perti (Murialdo 1988, 335-396; Id. 2001) e ad Aquileia è stata rilevata una
134 Giacomo DISANTAROSA
Nel relitto di La Palud (Isola di Port-Cros, Francia) è stato rinvenuto un solo
caso di coperchio sagomato e ancora in situ, in un’anfora Keay LXII. La particolarità
di quest’ultimo esempio consiste nel fatto che il coperchio, ricavato
da un anfora precedentemente impeciata, è stato sistemato con la parete concava
posta verso l’esterno in modo da evitare possibili inquinamenti con il
liquido del contenitore sul quale era stato adattato83.
Tra gli altri metodi utilizzati per chiudere le anfore vanno, infine,
considerati i vasi di piccole dimensioni detti „anforischi”, oggetti la cui definizione
è dibattuta da parte degli archeologi. Diverse sono le interpretazioni
per circoscriverne la funzione84 e scarsi risultano i dati relativi ai territori di
produzione85; erano inseriti al rovescio nei tappi di sughero, di legno o di
altro materiale delle anfore, in modo da facilitare la fase di estrazione86. Col-
preponderanza di opercula riferibili al periodo tardoantico. La copertura di uno spathion di
piccole dimensioni con un coperchio sagomato è attestata nell’oppidum di Saint-Blaise a
Bouches-du-Rhône (Villedieu 1994, Fig. 80.9). Il margine di questi dischi di terracotta risulta
nella maggior parte dei casi irregolare, frastagliato e con piccole concavità, realizzati
mediante l’utilizzo dello scalpello, attraverso la tecnica definita „microlitica”, cioè la stessa
applicata per la realizzazione dei manufatti in pietra durante l’età preistorica e protostorica
(Battistella 2005). 83 Long-Volpe 1996, 1243-1244, Fig. 14.2.
84 Manacorda 2004a, 45 e Id. 2008, 75. Tra i vari utilizzi vi è quello di ‘fritilli’ o
bossoli per il gioco dei dadi (Romano 2002) come è confermato dal rinvenimento nella necropoli
romana di Bevagna, in Umbria, di un esemplare con un dado incastrato al suo interno
(Egidi 1983, 283-286). Non viene escluso il loro utilizzo come balsamari o come porta
profumi tenuti in piedi in appositi sostegni (Pavolini 1980, 1009-1013; Id. 2000, 375-378) o
come unguentari utilizzati nei rituali funerari (cfr. esemplare scoperto nell’edificio 26 della
necropoli della via Ostiense: Panariti 2001, 447; dalla Tomba Torres n. 3 di Ampurias:
Almagro 1955, 141; nella necropoli di Terragona: Peña Rodríguez- Ynguanzo Gonzáles 2004). 85 Riguardo la produzione e la provenienza dei questi oggetti è prematuro trarre
conclusioni non avendo a disposizione risultati di analisi degli impasti. Le caratteristiche
macroscopiche di alcuni esemplari farebbero protendere per l’ipotesi di produzioni locali,
cioè negli stessi ateliers che producevano i contenitori. Un riferimento alla produzione di
questi oggetti è in Pavolini 1980, 1007-1009 e Panariti 2001, 447. Un impasto beige rosato
e con frequenti inclusi di mica è attestato nello scavo di Santa Giulia a Brescia (BrunoBocchio
1999, 254). Dalle stratigrafie di Vagnari proviene un esemplare iscrivibile per le
caratteristiche macroscopiche dell’impasto e per il trattamento della superficie alla produzione
africana (cfr. Anforisco Tipo 1 in Disantarosa 2003-2005, 332). Una sistemazione
tipologica è in Pavolini 1980, 994-1004. Due tipi principali sono documentati nello scavo di
Pisa San Rossore (Iardella 2000, 197-209). 86 Ritrovamento in situ di un esemplare dal sito della villa romana di Saint-Cyrsur-Mer
(Benoît 1952, 281; Bebko 1971, 74); in territorio dalmata (Kirigin 2003, 511, Fig.
465); tra i reperti del relitto Lavezzi 1 nella Corsica del Sud (Liou 1990, 144, Fig. 14.5). P.
Atrhur li definisce „amphora stopper” (Arthur 1997b, 334-335).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 135
legata a questa ipotesi è la teoria dell’uso di questi vasetti come cucurbitula,
cioè come ventose, per aspirare l’aria e consentire la conservazione dei contenuti
sotto vuoto87. I piccoli vasetti potevano anche essere utilizzati come
unità di misura per la mescita all’atto della vendita al dettaglio del liquido
contenuto nelle anfore88.
Non sempre comunque l’apertura delle anfore avveniva dall’imboccatura,
attraverso l’eliminazione del tappo o del coperchio. Sulla base di attestazioni
rinvenute nella necropoli di Pupput e da qualche esemplare recuperato
a El Jem è stato possibile osservare metodi alternativi di apertura.
Venivano, per esempio, realizzati di piccoli fori, situati nella parte inferiore
del corpo dell’anfora o fori di media dimensione realizzati sulla spalla dell’anfora89.
L’analisi prosopografica delle iscrizioni apposte sui contenitori da
trasporto fornisce ottimi indizi per la comprensione dei meccanismi di produzione,
commercializzazione e sulla possibile provenienza degli stessi90. Il
corredo epigrafico attestato con varie forme e tipologie sulle anfore è un fenomeno
frequente in epoca tardorepubblicana e imperiale e diventa sempre
più raro nel periodo tardoantico e medievale91. La classe dei contenitori da
trasporto offre un gamma articolata di testimonianze epigrafiche: essa comprende
i bolli92, le iscrizioni dipinte con pigmenti di colore rosso o bruno, i
87 Rodriguez Almeida 1974, 813-818.
88 Beltránde Hesedia Bercero 2000, 200.
89 Bonifay 2004, 467-470.
90Punto di partenza per questo argomento è il lavoro di Callender 1965. Si veda
inoltre: Zevi 1966, 208-247; Rodriguez Almeida 1984: Id. 1989; Id. 1994; Cipriano 1994;
Panella 1994; Morizio 1994; Volpe 1994; Blanc Bijon et al. 1998; Carreras Monfort-Funari
1998; Conovici 2004. Esempi di ricostruzioni dei commerci e dei personaggi impegnati in
queste operazioni sono nei contributi di Malfitana 2004 e Donnini 2006. Si considerino
inoltre i dati ricavati dallo studio sui contesti romani dell’horreum ai piedi del Testaccio
(Coletti c.s.). 91 L’interpretazione dell’atto di bollare le anfore è ancora motivo di dibattiti: probabilmente
le funzioni erano molteplici. La diffusione puntiforme delle aree che adottano la
bollatura, unita alla variante cronologica del fenomeno, non permette interpretazioni univoche
del fenomeno. Un ulteriore fattore di asistematicità è fornito dall’organizzazione interna
delle officine: non tutte le anfore realizzate in un determinato centro presentano bolli
o possono presentare bolli con diversi nomi o ignorare totalmente la bollatura (Manacorda
2005, 154-155). Riflessioni sul coinvolgimento della Chiesa in Età tardoantica nella produzione
e nel commercio dei generi alimentari, con anfore che recano solitamente graffiti o
tituli picti „religiosi” (Bernal Casasola c.s.).
92 Si tratta di marchi impressi prima della cottura con semplici nomi, sigle, simboli
o segni realizzati tramite una matrice su un punzone ligneo, ceramico o metallico che pro-
136 Giacomo DISANTAROSA
tituli picti93, quelle incise prima o graffite dopo la cottura del vaso94 e, infine,
vere e proprie etichette in piombo che venivano legate ai contenitori stessi95.
duceva un’impronta a incavo o parzialmente a rilievo, talora entro un cartiglio apposto sulle
anse, sull’orlo, sul collo e raramente sul puntale. Per il fenomeno della bollatura in area
egea durante il periodo ellenistico si veda: Empereur-Hesnard 1987 e Finkielsztejn 2004.
Un esempio di studio della raffigurazione zoomorfa all’interno di cartiglio apposto su
un’anfora prodotta a Taso è in Abdère, Badoud 2004, Garlan-Blondé 2004 e Garlan 2004-
2005. Bolli con rappresentazioni di edere, anfore, caducei e altri simboli sono documentati
sulle anse di anfore rinvenute a Ainos, in Turchia (Karadima 2004); nella produzione di anfore
di Akanthos il simbolo della ruota è unita a lettere (Garlan 2006). Particolare è l’anfora
rappresentata in corrispondenza della stazione 48 di Piazza delle Corporazioni a Ostia, con
un timbro che rappresenta una palma e le lettere M(auretania) C(aesariensis) (Ben AbedBen
Khader-Bonifay-Griesheimer 1999). Per ipotesi interpretative legate al mondo dell’economia
di questa pratica si vedano i contributi di Ehmig 1999; Cipriano-Mazzochin
2000; Gianfrotta 2001; Lawall 2005; Manacorda 2005a (per le anfore di Pompeo Magno).
Punto di riferimento per la storia economica del periodo della Repubblica di Roma è fornito
dai dati del bollo SES/SEST (SESTIUS (Panella 1998, 573-540; Loughton-Olmer 2003).
Sulla base dello studio dei bolli apposti sulle anfore della proprietà della Gens Licina è stato
possibile ricostruire i rapporti tra proprietari delle officine e l’organizzazione produttiva
nell’area settentrionale della Spagna (Berni-Carreras Monfort-Olesti 2005, 170-175). 93 I tiutli picti sono realizzati solitamente sul collo o sulla spalla con il calamo o
con il pennello; presentano nomi relativi alla merce trasportata, date consolari, nomi personali,
nomi di località e unità di peso e di misura (Dadea 1999; Revilla 2000-2001; Panella
2001, 186-187; Ead. 2002, 625). I personaggi menzionati, normalmente in caso genitivo
potrebbero indicare i mercatores, i negotatiores o i navicularii. Caratterizzate da una eccezionale
quantità e qualità di informazioni sono i tituli picti delle anfore olearie Dressel 20,
presenti dal I al III sec. d.C. nei depositi di Roma. Per i pigmenti e coloranti utilizzati in
antichità si veda: Croisille 2005, 289-290 e in particolare per i tituli picti sulle anfore:
Travaglini 2003, 179-187. 94 I graffiti sulle anfore sono realizzati con oggetti appuntiti e sono ubicati nella
maggior parte dei casi sulla parte alta dell’anfora. Si tratta di segni da porre in connessione
con le modalità del commercio, il peso, il tipo di merce, l'ordine di stivaggio o relative al
destinatario. Spesso si tratta di simboli anepigrafi, monogrammi o formule dedicatorie
(Pensabene 1981; Long-Volpe 1996, 1242-1243; Remy-Jospin 2000; Murialdo 2001, 297-
298; Buchi 2003; Paraschiv Talmaţchi-Stănică 2008). Tale pratica continua nel Medioevo e
in Età Moderna (Preta-Andronico 2008). 95 Tessere di forma rettangolare che venivano ripiegate in modo da essere posizionate
in corrispondenza dell’attacco inferiore dell’ansa del contenitore con lo scopo di
fornire informazioni sull’origine del contenuto. Solitamente il testo in rilievo era articolato
su due righe: sul primo l’indicazione di provenienza dell’„officina” e sul secondo il nome
del personaggio a cui era affidata la gestione dell’impianto o il proprietario stesso. In alcuni
esemplari compaiono anche simboli o rappresentazioni (per esempio corone vegetali, palme
e tridenti) interpretabili come „marche” dell’impianto di trasformazione dei prodotti ittici,
con la funzione di identificare più rapidamente e di fornire garanzia sul prodotto. Sono,
inoltre, attestati oggetti costituiti da piastrine ripiegate o forate che nella storia degli studi
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 137
3. Il trasporto delle anfore e l’archeologia del commercio
Le fonti letterarie e iconografiche forniscono informazioni sulle modalità
di trasporto delle anfore, dati che arricchiscono le conoscenze per le
ricostruzioni di storia economica96 e dei processi che regolano gli scambi e
il commercio nel mondo antico. L’anfora nell’antichità, più precisamente nel
mondo greco e romano, costituiva anche una misura di capacità. Gli studi recenti
hanno dimostrato quanto questa caratteristica metrologica delle anfore
fosse diffusa e i rapporti tra multipli e sottomultipli97. In amphorae, infatti,
veniva calcolato il tonnellaggio delle navi romane, come del resto ricorda
una legge, passata per un plebiscito indetto tra il 219 e il 218 a.C. dal tribuno
della plebe Q. Claudio e appoggiata dal censore C. Flaminio, che non
consentiva ai senatori romani di possedere navi che trasportassero più di 300
anfore, evitando così di svolgere in prima persona attività commerciali98. È
possibile leggere una correlazione tra le anfore e la loro funzione di riferimento
per le misurazioni considerando i piccoli pesi in piombo per stadere
che ne riproducono fedelmente le forme99.
inizialmente sono stati interpretati come pesi da pesca (Pallarés 1987, n. 26). Alcuni esemplari
provenienti dall’Africa sono stati classificati in Lequément 1975; altri esemplari da S.
Antonino di Perti in Liguria (Murialdo 2001a, 299). 96 Una lettura del trasporto delle anfore come fonte per le ricostruzioni di storia
economica è in Lund 2007. 97 Olmer 2001. Esempi di misurazioni della capacità su anfore del VI sec. a.C. rinvenute
nel carico del relitto di Pabuç Burnu (Turchia) e ipotesi con i meccanismi di distribuzione
sul mercato in Greene-Lawall 2005-2006. L’indicazione dell’anfora come riferimento
metrologico persiste, con una serie di variazioni che tendono ad aumentare il quantitativo
del liquido (solitamente fissato nella metrologia greca-romana a 19, 50 e a 26,20 litri)
anche nel Medioevo (Pasquali 2007, 423-437). L’importanza del calcolo delle capacità delle
anfore fu avviata con una serie di esperimenti nel 1939 in Casson 1939, 1-16, per poi passare
alle esperienze di Ducan Jones 1976, 51-62, Wallace 1986, 87-94, van Doorninck Jr. 1993, 8-
12 e Van Alfen 1996, 189-213. La misurazione attraverso il metodo ‘meccanico’ si avvale dell’uso
empirico di un liquido o di materiali vari (polistirolo, sabbia, ecc.); quello ‘matematico’
applica un algoritmo (Durando 1989, 59-72); quello ‘informatico’ si basa su programmi
per il calcolo dei volumi (Steckner 2000). 98 Il plebiscito è ricordato da Liv. 21, 63, 2 e anche da Cic. Verr. 2,5, 18, 45 (Rotondi
19662
, 249-250). Su questa legge inquadrata nell’analisi del sistema economico del mondo
romano torna Schiavone 1996, 85-86. 99 Alcuni esempi sono forniti dai materiali di età romana recuperati lungo l’Auser /
Serchio, nella piana di Lucca (Ciampoltrini-Andreotti 2003, 217). Uno studio tipologico in
Corti-Giordani 2001, 300-302, Greco 2001 e nella collezione provinciale del Museo sannitico
di Campobasso (Di Niro 2007, 202-203).
138 Giacomo DISANTAROSA
I contenitori da trasporto potevano superare il metro di altezza e
pesare vuoti tra i 5 e i 10 chilogrammi. La loro capacità media era di 50 litri
e una volta riempiti, il peso poteva aggirarsi tra gli 80 e i 90 chili. Questo
giustifica il trasporto manuale di un contenitore a pieno carico sempre effettuato
da due uomini che si avvalgono di pertiche come è testimoniato da un
bassorilievo di una formella in terracotta (Reg. VII, Ins. IV, n.16) e da un
affresco scoperto sulle scale di un edificio dell’Insula 39, entrambi rinvenuti
a Pompei100 (Figg. 7-8).
Da una raffigurazione presente su uno skyphos attico, datato agli inizi
V secolo a.C., conservato presso il Museo Nazionale di Taranto e rinvenuto
in una tomba a camera, si deduce come in alcuni casi il trasporto delle anfore
potesse avvenire anche mediante una sola persona, che caricava il contenitore
sulla spalla agevolandosi con un „cuscino” che serviva ad attutire gli
effetti del peso101.
Altre documentazioni iconografiche forniscono scene di scarichi e
imbarchi effettuati attraverso il trasporto a spalla dei contenitori102 come
quella offerta dalla rappresentazione sul mosaico del Piazzale delle Corporazioni
di Ostia, datato alla fine del II sec. d.C., dove la fase di trasbordo di
anfore dall’imbarcazione principale alle naves actuariae103 si avvaleva di
questo metodo; nel rilievo di Narbona del III sec. d.C., conservato presso il
Museo Lamourguier, sono visibili portatori che stanno scaricando portandole
sulle spalle le anfore dalla nave attraverso un ponteggio che la collega
alla banchina portuale; nel rilievo dei Tabularii del porto di Traiano, cronologicamente
inquadrato tra la fine del II e l’inizio del III secolo d.C., accanto
ai portatori di anfore sono rappresentati anche i funzionari addetti al
controllo e alla registrazione dei dati della quantità della merce trasportata104.
Portatori di anfore sono anche rappresentati sul rilievo marmoreo
proveniente dalla regione dell’ex Vigna Chiaraviglio delle Catacombe di San
100 Tchernia 1979, tav. II; Martin Kilcher 1994, 514-520. 101 Skiphos attico a figure nere della Classe di Heron, datato tra il 500 e il 480 a.C.
(Lippolis 1997, 365). Su un cratere a figure rosse rinvenuto nella Tomba 75 della Necropoli
Sud di Caltanisetta, in Sicilia, è raffigurato nella parte centrale un uomo che regge un’anfora,
con una mano al centro e l’altra al puntale. La raffigurazione, attribuita al Pittore di Boreas
(475-450 a.C.), è simbolica delle varie posizioni che nel trasporto a mano si applicavano
per meglio maneggiare l’oggetto. Per il contesto e lo studio del reperto si rimanda a Panvini
2005, 45-46, Fig. 46. 102 Friedman 2005-2006. 103 Per la bibliografia specifica sull’argomento e sull’iconografia si veda Bounegru 2008. 104 Pomey 1997, 119, 127, 131.
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 139
Sebastiano, che doveva essere originariamente collocato sulla parete di ingresso
di un mausoleo o come fronte di un finto sarcofago, ipotesi suffragata
dalla presenza di due incavi praticati nello spessore superiore del manufatto,
utili perché fosse agganciato al coperchio del sepolcro. Il rilievo riproduce una
vera e propria situazione di acquisto al minuto della merce. Il particolare riferito
ai portatori di anfore segue quello della giovane acquirente ed entrambi
indossano una tunica corta cinta in vita da alte fasce e le tipiche calzature
degli ambienti servili e umili: i compagi. Sono raffigurati mentre sorreggono
l’anfora con la destra e con il braccio sinistro piegato sul dorso bilanciano il
peso105 (Fig. 9).
Il trasporto delle derrate contenute nelle anfore in località interne e
non facilmente collegabili attraverso una buona rete viaria106 poteva essere
organizzato utilizzando „carovane” di asini o muli107 o di cammelli. La prova
dell’utilizzo di quest’ultimi è fornita da una statuetta fittile da Afrodisia, da
un’altra conservata presso il Museo di Alessandria e dalla stele funeraria
della Gens Peticia (rilievo cd. Dragonetti) del Museo Archeologico dell’Aquila,
impegnata nel commercio con l’Arabia108 (Fig. 10).
105 Rinvenuto in maniera frammentaria all’inizio degli anni Ottanta del Novecento,
nel settembre del 2002 il rilievo è stato sottoposto a restauro (Bisconti 2003). Il piegamento
del corpo in avanti per il carico di un’anfora è reso anche nel bassorilievo conservato al Metropolitan
Museum di New York (Sangiovanni 2008a, 105). Altro esempio simile è fornito
dal rilievo rinvenuto nella necropoli dell’Isola Sacra (Ostia) e datato al III sec. d. C. in cui è
rappresentata una scena di arrivo della merce attraverso delle navi, presumibilmente nel
porto di Ostia, e dalla vendita al dettaglio della bevanda, contenuta nelle anfore (Pomey 1997,
119). 106 Bibliografia specifica in Otranto 2007, 207-208. 107 Gli stessi asini e/o muli erano adoperati per il trasporto di carichi esigui di anfore,
come testimoniano il vaso plastico del periodo ellenistico, in stile Gnathia, trovato decontestualizzato
presso l’Arsenale Militare di Taranto e conservato presso il Museo Archeologico
(Lippolis 1994, 312) o dalla statuetta di terracotta conservata presso il Museo Archeologico
Provinciale di Bari (De Juliis 1983, 67, Fig. 118). Un ulteriore testimonianza è
fornita dal bassorilievo, rinvenuto a Alba Fucens e datato al I sec. a.C., con rilievo paesistico
raffigurante Pan e da Eros che cavalca un asino, sul quale lateralmente è stata caricata
un’anfora (Sangiovanni 2008b). Da un contesto funerario datato al III sec. a.C. di Via
Pascoli ad Oria (BR) tra gli elementi di corredo della tomba è stato rinvenuto un askos con
testa di equino equipaggiato sui due lati con anfore (Semeraro 1993, 28-30). L’utilizzo di
un asino(?) con anfore disposte sul basto risulta essere evidente su un mosaico, destinato a
pavimentare un piccolo ambiente, datato alla tarda età antonina-prima età Severiana, rinvenuto
nel 2005 a Roma, in via Maida (Musco 2006). 108 Pisani Sartorio 1994, 32, Fig. 20; Bonifay 2005, 463, Fig. 3; Purpura 1996; Belfiore-Purpura
2006, 67.
140 Giacomo DISANTAROSA
Per il trasporto dei materiali e delle merci era possibile adoperare carri
pesanti trainati da buoi o da muli e asini (clabularia). Su questi spesso erano
caricate le anfore, adagiate su strati di materiale vario in modo da attutire i
colpi che i veicoli subivano sulle strade. Vitruvio osserva nel De Achitectura
(X, I, 5) che neque olei nitorem, neque vitium fructum habere potuissemus
ad iucunditatem se non fossero state inventate le machinationes, cioè i meccanismi
e i sistemi di trasporto dei plostra e dei serraca
109.
Per il carico e lo scarico delle anfore in particolar modo nei porti marittimi
e fluviali, oltre la modalità ‘a spalla’ da parte di manovali venivano
adoperate anche le macchine elevatorie. Gli antichi conoscevano e usavano
la leva, il cuneo, la vite, la puleggia e il verricello (argano) che, uniti e applicati
a macchinari lignei indicati con il nome generico di varae e combinate
con sistemi ingegnosi, permettevano di sviluppare le energie per la sollevazione
di pesi considerevoli110. Un esempio di questi sistemi di sollevazione
impiantati su strutture portuali è fornito dal bassorilievo di Avezzano,
datato al I sec. d.C., in cui sono rappresentati le fasi del lavoro di
dragaggio del fondo del lago Fucino avvenuto durante l’impero di Claudio.
Per la realizzazione di questi lavori furono approntate macchine simili a
quelle utilizzate per lo scarico e il carico delle merci nei porti111 che facilitavano
lo scarico delle anfore direttamente dalle imbarcazioni e per caricarle
su altri mezzi.
Un’alternativa al trasporto terrestre era quella delle cosiddette „vie
d’acqua” cioè il trasporto marittimo e fluviale eseguibile con costi relativamente
bassi112. La più antica rappresentazione del trasporto di anfore su
imbarcazioni è quella fornita da una pittura parietale della Tomba di Kenamon
a Tebe, datata al XV sec. a.C., dove si distingue una nave siro-fenicia
con anfore sull’imbarcazione e sbarco delle stesse, operazione svolta con il
controllo di una figura preposta all’ispezione della merce113. Altri esempi
109 Per maggiori approfondimenti sulle tipologie dei carri impiegati per il trasporto
delle merci si veda: Pisani Sartorio 1994, 61-66 e 88-92. 110 Per le macchine sollevatrici utilizzate anche nelle costruzioni edilizie: Adam
1988, 44-53; Giuliani 1990, 199-205; Kozelj-Wurch Kozoelj 1993; Tataranni 2002. 111 Pomey 1997, 154-155, in particolare il disegno ricostruttivo di X. Nieto del
porto sul Tevere a Roma. 112 Pascal 2005. Esempi connessi allo sfruttamento delle vie fluviali per il commercio
sono forniti dai rinvenimenti in Portogallo presso il fiume Rio Tejo (Quaresma 2005) e in
Italia dai depositi tardoantichi indagati negli scavi urbani di Verona (Bruno 2007), oltre che
dalle importazioni e dalle circolazioni lungo il corso del Po (Corti 2007). 113 Pomey 1997, 64.
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 141
sono quelli che compaiono su una brocca cipriota del VIII sec. a.C.114
, su un
graffito rinvenuto a Delo115, sul bassorilievo proveniente dall’Isola Sacra
(Ostia)116 e sul mosaico di Tebessa in Algeria, datato al II-III sec. d.C.117.
Esemplificativi, a tale riguardo, sono anche il rilievo sulla lastra del sarcofago
proveniente dalla Catacomba di Pretestato a Roma118 e la scena dipinta
nella lunetta dell’arcosolio di fondo del cubicolo nel cimitero di Ponziano119
con anfore sistemate nelle stive di imbarcazioni leggere, destinate a risalire
il corso del Tevere per giungere a Roma.
I ritrovamenti di anfore in contesti subacquei hanno permesso di determinare
con maggiore precisione l’esistenza dei principali circuiti e delle
rotte dei traffici antichi, che avvenivano soprattutto per via mare, interessando
l’intero Mediterraneo120, l’Atlantico121 e il Mar Nero122. L’archeologia
subacquea123 ha permesso di individuare e recuperare dai relitti numerosi
esemplari intatti, a volte addirittura sigillati e con tracce del contenuto originario
e attraverso rilievi dettagliati ha fornito interessanti dati circa la dispo-
114 Pomey 1997, 76-77; Scheibler 2003, 173, Fig. 134. Iconografia di riferimento
su una pisside del Museo di Picardie ad Amiens del V sec. a.C. (Jucker 1950, 135-138). 115 Pomey 1993, 160, Fig. 6; Id. 1997, 15. 116 Composto da tre frammenti il rilievo è conservato presso la sala VI dei Magazzini
di Ostia (n. 1481) (Pomey 1993, 156, Fig. 3). 117 Höckmann 1985, 117; Pomey 1997, 127. Per un quadro più dettagliato si rimanda
al contributo di Friedman 2005-2006. 118 Pomey 1997, 126; Mazzei 2000, 480-481. 119 Anche un cospicuo gruppo di incisioni su lastre funerarie si riferiscono a queste
attività di trasporto. Approfondimenti e rimandi per una bibliografia specifica in Bisconti
2000, 126-131. 120 Parker 1992; Id. 1996; Jurišic 2000; Id. 2006; Dell’Amico 2005; Pomey 2005.
Un database sulle anfore rinvenute nei relitti Egei è stato realizzato dall’EUA (Ephorate of
Underwater Antiquities) del Ministero della Cultura ellenico (Micha 2005-2006). 121 Per l’archeologia subacquea e i relitti nell’Atlantico si veda L’Hour-Veyrat
2005 e Urteaga Artigas-Noain Maura 2005. In particolare per le indagini sul relitto tardoantico
di Ploumanac’h (IV sec.) si veda il contributo in L’Hour 2005. 122 Opaiţ 2004, 6-43. 123 Lo studio dei relitti, con tutte le problematiche relative, costituisce uno dei
settori d’indagine dell’Archeologia subacquea. Un altro aspetto importante per la storia dei
commerci è quello che riguarda lo studio della tipologia e delle tecniche di costruzione delle
navi (Archeologia navale). In generale per questi argomenti si veda: Gianfrotta-Pomey
1981; Volpe 1998; Id. 2000; Id, 2000a.; Pomey-Rieth 1998; Ii. 2005; Ii. 2006; Jensen 1999;
Dell’Amico 2000; Id. 2002; Beltrame 2002; Felici 2002; Mees-Pferdehit 2002; Ruppé-
Barstad 2002; Tortorici 2002; Carlson 2003; Mc Grail 2003; Id. 2006; Blue-Hocker-Englert
2006; Petriaggi-Davidde 2007.
142 Giacomo DISANTAROSA
sizione del carico all’interno della nave124, sulle tipologie dei contenitori e la
loro cronologia125.
La forma affusolata delle anfore agevolava la disposizione del carico
nella stiva: queste erano organizzate a scacchiera o a quincunx in modo da
permettere l’inserimento dall’alto di un’anfora ogni tre oppure ogni quattro
colli di anfore dello strato inferiore126. Fra le spalle delle anfore era lasciato
un piccolo spazio finalizzato all’inserimento della paglia, giunchi o rametti
che ammortizzassero urti pericolosi fra i vasi. Si usavano anche tavole e casse
di legno che ingabbiavano le file delle anfore e garantivano la completa immobilità127.
Le indagini condotte dal 2001 dall’Università degli Studi di
Napoli „l’Orientale” in collaborazione con la Boston University presso il sito
faraonico di Mearsa Gawasis, l’antica Sww, nella regione meridionale del
Mar Rosso, hanno permesso la documentazione di numerosi frammenti di
anfore e di circa 40 casse in legno, fornendo importanti informazioni sull’organizzazione
delle spedizioni marittime e sul carico delle imbarcazioni128.
Tracce di consunzione delle pareti delle anfore impilate nelle stive e legate con
corde, per evitare gli inevitabili schocks della navigazione, sono evidenti sulle
anfore di Tipo 4 della classificazione elaborata da F e M. Py, datate tra gli ultimi
decenni del VI e la fine del V sec. a.C., recuperate dal relitto Grand Ribaud F129.
124 Il comandante Ph. Tailliez fu tra i primi a comprendere l’importanza del rilevamento
e la necessità di individuare la posizione degli oggetti (Gianfrotta-Pomey 1981,
113-114). 125 Un caso di riferimento è quello delle anfore cd. „greco-italiche” e dello studio
sulla crono-tipologia rivisto in Cibecchini 2005-2006 alla luce dei dati interpretati dai relitti
e dai rinvenimenti subacquei (Olcese 2005-2006) o quello con tipologie anforiche di transizione
tra il II e il III sec. d.C. relative al carico del relitto West Embiez 1, nel tratto di costa
tra Marsiglia e Tolone (Bernard-Jézégou 2005-2006). 126 Simili maglie sono state ritrovate sui relitti di Capo Chelidonia, di Marsala, della
Chrétienne A, di Torre Sgarrata e di Port Vendres (Gianfrotta-Pomey 1981, 279-280) e sulle
navi del porto di Pisa (Sedge 2002). Talvolta lo spazio era riempito anche con ceramica da
mensa, da cucina o con anfore di piccole dimensioni. Una ricostruzioni 3D didattico-esplicativa
di tale pratica è stata presentata su uno dei pannelli della mostra organizzata al Museo
Archeologico „F. Savini” di Teramo (Sangiovanni 2008a, 719). 127 Toniolo 2000, VI. 128 Zazzaro-Calcagno 2007, 18. Un riferimento iconografico di questa pratica, datato
ad un periodo successivo, è quello del bassorilievo del sarcofago conservato a Roma, presso
la Villa Medici, dove compare una imbarcazione nei pressi di strutture portuali e all’interno
il carico protetto da casse lignee (Friedman 2005-2006, 130, Fig. 11). 129 Il relitto è stato scoperto nel 1999 ed è stato oggetto di due sondaggi nel 2000 e
nel 2001. Posto alla profondità di 58-62 metri è stato documentato utilizzando il ROV Super
Achille (Long-Drap-Volpe 2002, 7; Long-Gantes-Drap 2002).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 143
Durante il viaggio bisognava garantire stabilità all’imbarcazione e alle
merci, anche in condizioni difficili di mare, dal momento che un carico mal
disposto poteva rendere complicato, se non impossibile, governare la nave.
Particolare attenzione era rivolta all’incolumità dei contenitori, in modo che
non si rompessero, oltre che ai sistemi utilizzati per ottimizzare gli spazi, in
modo da trasportare la maggiore quantità possibile di prodotto per un ritorno
economico130. Le anfore erano disposte generalmente su più livelli, 3 o 4 al
massimo131; quelle del piano inferiore erano fissate in uno strato di sabbia o
di ghiaia. Per la sistemazione del carico della nave l’esempio che permette
una buona ricostruzione è quello fornito dallo scavo del relitto della Madrague
de Giens imbarcazione con un tonnellaggio notevole, pari a 500 tonnellate, e
con una capacità di carico di ben 400 tonnellate di portata lordo. Sul relitto
di Giens sono state rinvenute circa 6.000-6.500 anfore vinarie italiche di tipo
Dressel 1132. Dal relitto rinvenuto a La Tradelière (Francia) si acquisisce
invece il dato dell’utilizzo di sacchi di nocciole che erano stati disposti tra il
carico di anfore e i vetri protetti da scatole lignee per attutire colpi bruschi
derivati dalla navigazione133. Le anfore in situ appartenenti al relitto Cabrera
3, datato al III sec. d.C., nel porto dell’omonima isola in Spagna, hanno
fornito un’ulteriore esempio per lo studio della disposizione del carico.
Sistemate „in quadrato”, le Dressel 20 più voluminose e più pesanti, probabilmente
collocate su due strati, erano posizionate al centro; lo spazio a babordo
e a tribordo era utilizzato per le Almagro 50 da un lato e per le anfore
Africana IIC dall’altro, entrambe più alte e strette, conferendo stabilità al
carico; nello spazio restante, fino all’altezza del ponte, erano collocate i contenitori
Dressel 23, Tejarillo 1, Beltran 72 e Almagro 51C134.
130 Gianfrotta-Pomey 1981, 279; Cambi 1991, 22-24. Nel relitto Dramont E a
Saint-Raphaél dove sono stati rinvenuti spathia di piccole dimensioni, utilizzati forse per
razionalizzare gli spazi (Santamaria 1995, 117-118). 131 La presenza di nove piani di anfore rinvenute nel relitto di Albenga deve essere
considerata un’eccezione (Lamboglia 1952). Recentemente nel tratto di mare antistante
Loano (SV) e l’isola Gallinara è stato scoperto un relitto il cui cumulo presenta dimensioni
comprese tra i 20 e i 10 metri. Questi dati hanno fatto ipotizzare il naufragio di una nave
oneraria, con una stazza inferiore alle 75 tonnellate ed un pieno carico di ca. 1500 elementi.
Il relitto, il cui carico era prevalentemente composto da Dressel 1C, è stato denominato
Albenga B (Martino 2004, 5-6). 132 Tchernia et al. 1978; Pomey 1982. 133 Fiori-Joncheray 1975. 134 Sono state recuperate 89 anfore intere e 42 colli appartenenti a 9 diversi tipi:
Bost et al. 1992.
144 Giacomo DISANTAROSA
I „relitti profondi”, definiti l’„El Dorado” dell’archeologia subacquea135,
permettono una ricostruzione ottimale del ‘momento’, delle cause e delle condizioni
del naufragio; consentono una maggiore conservazione delle strutture
lignee, favorita dall’assenza di luce e dalle basse temperature che rallentano
le correnti marine, insieme al carico di anfore136. Quest’ultimo non
subisce bruschi cambiamenti delle posizioni di stivaggio grazie alla modalità
„rallentata” con cui si adagia sul fondo; la bassa concentrazione di ossigeno
e di sedimentazione alle alte profondità non consente la naturale cementificazione
e concrezione dei sedimenti e dei carbonati sui reperti. Su un
relitto del VI secolo documentato nelle acque profonde del Mar Nero, nei
pressi di Sinope, è stato possibile registrare la presenza di costolature di cera
d’api sui sigilli dei tappi delle anfore137.
È necessario tenere presente che, per la ricostruzione dei processi
economici e degli scambi nel mondo antico, non è possibile basarsi unicamente
sui dati relativi alla presenza e circolazione delle anfore. Queste, infatti,
non erano l’unico sistema per la commercializzazione delle merci, come
hanno dimostrato alcuni rinvenimenti sottomarini di navi su cui erano disposti
grandi dolia138, sistemati generalmente nel settore centrale della stiva
di alcune imbarcazioni o l’uso di botti in legno, insieme agli otri, ai cullei, ai
135 La definizione è in Long 1998, 346. 136 Sul potenziale di conoscenza che deriva dai progetti di survey subacqueo nelle
acque profonde si rimanda allo studio effettuato sulla tipologia delle Pamphylian Amphorae
del I sec. a.C. in Lawall 2005-2006. Per i processi formativi dei relitti: Beltrame 1998; Id.
2002a. Progetti di esplorazione ad alta profondità in Salvi 2002; McCann-Pleson 2004. Si
vedano anche i risultati delle indagini svolte sui relitti Sud-Caveaux 1(Long-Delauze 1997,
Fig. 34), Grand Ribaud F (Long-Gantes-Drap 2002; Long-Drap-Volpe 2002), Héliopolis 2
(Joncheray-Long 2002), Est e Sud Perduto 1, Est Perduto 2, Sud Lavezzi 5 (Delauze et al.
2005). Per la questione della tutela dei relitti profondi cfr. Galasso 2002 e Ransley 2007. 137 De Jonge 2004, 78. 138 Diverse testimonianze sono fornite dai relitti delle cosiddette ‘navi-containers’:
Diano Marina (Imperia), Quercianella, Piombino, Monte Argentario, Cap d'Antibes, Chré-
tienne H, Dramont B, Planier 1, Bénat 2, Pecio del Clavo. Alcuni si presentavano in associazione
con anfore Dressel 2-4 come nel caso del relitto di Ladispoli a Nord di Roma, La
Groupe A presso Antibes, Petit Congloué a Marsiglia, dell’Ile-Rousse e La Giraglia in Corsica
(Maniscalco 1998, 80-86; Celuzza-Rendini 1991, 85-91; Hesnard 1997; Panella 1998,
554-556; Gianfrotta 2001, 29-34, Laubenheimer 2004. Per i singoli relitti si rimanda alla bibliografia
specifica: Parker 1992, n. 565; Id, n. 436; Joncheray 1997; Parker 1992, n. 477;
Corsi Sciallano-Liou 1985, 102-118; Sibella 1999; Vallespìn Gòmez 1985; Parker 1992, n.
130. Per i dolia rinvenuti nell’Adriatico meridionale e nello Ionio si veda: Auriemma 2002).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 145
sacchi che lasciano poche tracce archeologicamente riscontrabili139, ma documentati
dagli autori antichi, dalle fonti epigrafiche e iconografiche, per
tutto il periodo romano e medievale.
4. Il reimpiego delle anfore: spie di ‘processi economici’ alternativi
4.1. Le anfore dopo l’uso: scarto e riciclo
La funzione iniziale delle anfore era quella di trasportare derrate o
prodotti di varia natura ma, dopo aver svolto questo compito e una volta
svuotate, venivano riciclate o semplicemente abbandonate in un immondezzaio,
smaltite definitivamente in una discarica, come testimoniano le anfore del Monte
Testaccio, colle artificiale che deve infatti la sua origine allo scarico regolare
dei frammenti delle anfore rotte, per lo più olearie, nella zona portuale fluviale
dell'antica Roma, nei pressi dei magazzini (horrea). Gli scavi hanno accertato
che il monte è composto da due piattaforme contigue dal profilo a gradoni e
hanno anche permesso di comprendere le modalità con cui erano organizzate le
discariche. Dapprima si depositava una fila di anfore coricate alle quali si rompeva
la parte inferiore per appesantirle all’interno con frammenti di ceramica e
renderle più stabili. Alle spalle di questa fila si realizzava la discarica fino a
raggiungere i 60 cm di altezza (diametro di un'anfora). Ottenuto un piano si
costruiva un'altra fila, leggermente arretrata, e si ripeteva il procedimento140.
Nella forma dell’economia antica ogni riciclaggio possibile era praticato
all’interno di attività diverse che a loro volta individuavano variegate categorie
di impiego: anche per le anfore è possibile individuare diverse forme di riciclaggio
dopo che queste avevano assolto la loro funzione principale141 (Fig. 11).
Se scartate e non destinate a nessun ulteriore reimpiego oltre che finire
ammassate in discariche o immondezzai, potevano essere riutilizzate come
139 Rocco 2002. Per gli otri e le botti: Hedinger-Leuzinger 2003; Marlière 2004. Tra i
relitti si può citare quello dell’Anse de Lauron 2 (Martigues, Bouche du Rhône) dove si sono
rinvenuti semi di grano, ipoteticamente conservati in sacchi, nella pece fuoriuscita da un’anfora
(Gassend-Liou-Ximénés 1984). 140 La collina è alta 54 m e conserva una circonferenza di 1 km circa. Secondo
quanto stabilito dagli ultimi studi si tratta in prevalenza di frammenti di anfore, costituite
per l'80% da contenitori betici (Dressel 20)e il restante ripartito tra anfore africane (15-
17%) e vinarie galliche o italiche (3-5%), formatosi tra la fine della Repubblica e i primi
secoli dell’età imperale (Blázquez Martines-Remesal Rodrìguez 2001; Ii. 2003; Ii 2007;
Aguilera Martín 2002). 141 Sui concetti di ‘usi’ e ‘reimpieghi’ nel mondo antico e per una lettura archeologica
di tali processi si veda Manacorda 2008, 118-126.
146 Giacomo DISANTAROSA
materia prima per il ciclo di produzione della ceramica142: venivano distrutte
e ridotte in piccoli frammenti in modo da fungere da degrassante nell’impasto
per nuovi vasi. Alcuni frammenti di anfore importate (Dressel 7-11,
Anfora di Cnido, Haltern 70 insieme alle Dressel 2-4) giacevano all’interno
di uno scarico di fornace, documentato in un ambiente adiacente al Teatro di
Tivoli, datato al periodo cesariano-augusteo143; contesti simili sono stati
indagati a Montallegro-Campanaio in Sicilia144 e ad Elaiussa Sebaste in Cilicia
(Turchia)145.
4.2. ‘Contenitore’ per altri ‘contenuti’
Una volta giunta a destinazione e svuotata, l’anfora poteva continuare
a mantenere la medesima funzione di ‘contenitore’ ed essere riciclata
con un ‘contenuto’ diverso da quello originale. Erodoto (III,6) infatti spiega
che le anfore vinarie che raggiungevano l’Egitto venivano svuotate per poi
essere riesportate con acqua nel deserto siriano146. A Naxos in Sicilia l’indagine
di scavo ha permesso di individuare le strutture dei cantieri navali e
di recuperare numerosi frammenti di anfore del VI-V sec. a.C. Per giustificare
la presenza dei numerosi frammenti in questo contesto, non si esclude
un utilizzo dei contenitori per soddisfare il bisogno di consumo di derrate
alimentari, unito alle possibilità di ri-utilizzo dei contenitori. L’assenza di
142 Particolare è il sito produttivo di Bakchias (Fayyum-Egitto) in cui è stata rinvenuta
un’anfora datata al VII sec. a.C. e identificata come Storage Jar 1 infissa verticalmente
nel terreno a poca distanza da una fornace, ipoteticamente impiegata per contenere liquidi
utili nelle fasi produttive (Tassinari 2004, 63-65). 143 Leotta 1999. 144 Hayes 2006, 431. 145 Il sito è stato indagato da una missione archeologica dell’Università di Roma
„Sapienza” nell’insediamento urbano portuale della Ciclicia Aspera ed è considerato tra i
centri più attivi per la produzione di anfore LR 1. Sono state individuate quattro fornaci e
classificate circa 750 anfore provenienti da una cisterna adiacente, utilizzata come luogo di
scarico dei materiali (Ferrazzoli-Ricci c.s.). 146 Arthur 2000, 73. Una testimonianza di contenitori adibiti al trasporto dell’acqua
è fornita dalla scena rappresentata sulla Patera di Otañes (Castro Urdiales, Cantabria). La
scena è raffigurata in due parti. Quella superiore simboleggia il mondo del soprannaturale e
del religioso. La parte inferiore raffigura il mondo profano con scene di vita quotidiana il
cui il comune denominatore consiste nell’uso dell’acqua (raccolta e bevuta) o nel suo trasporto.
Particolare è quest’ultima rappresentazione che vede una figura maschile nell’atto di
svuotare il contenuto di un’anfora all’interno di una botte in legno posizionata su un carro
collegato ad un asino o mulo (de Velasco 1997, 444. Si rimanda anche Beltrán Lloris-Paz
Peralta 2004, 275).
LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI 147
strutture particolari come le cisterne ha fatto supporre un riuso finalizzato a
contenere acqua per le esigenze del cantiere, mentre la presenza di pigmenti
rossi identificati con il minium/miltos o ematite, ha fatto ipotizzare un riciclo
delle anfore per contenere questo prodotto, adoperato per il trattamento del
legno delle imbarcazioni147.
Durante l’esplorazione da parte di speleologi subacquei della grotta
verticale di Vodeni Rat nel 1999, ubicata nella parte meridionale dell’isola
di San Clemente, la maggiore del gruppo delle PaKleni Otoci (isole Spalmadori)
in Croazia, sono stati riscontrati cinque contenitori, posizionati a circa
29 m di profondità all’interno della cavità. La grotta è stata utilizzata in
antico per la sua particolare morfologia e per la presenza di una sorgente di
acqua dolce come stazione di approvvigionamento; le anfore recuperate
(Lamboglia 2 e LR 1), cadute ipoteticamente in maniera accidentale al suo
interno, erano adibite proprio al prelievo e al trasporto di tale liquido148.
Anfore del tipo Dressel 1A e Dressel 8 rinvenute nello scavo del laconicum
nel quartiere orientale dell’abitato di Monte Iato in Sicilia, erano invece
ipoteticamente utilizzate per contenere e versare acqua su pietre precedentemente
riscaldate al fuoco, in modo da creare vapore acqueo nell’ambiente149.
La „polifunzionalità” di alcune anfore è testimoniata in alcuni casi solo
dalla presenza di tituli picti150. Su un esemplare di Dressel 1B conservato
presso il Museo Civico di Asti il titulus pictus esplicita il contenuto di olive
e non di vino: ol(iva) / ex dul(ci) / excel (lens) seguita da un monogramma e
dalle iniziali dei tria nomina del negotiator151.
Le anfore di tipo Africana I del relitto Grado 1, rinvenute senza impeciatura,
suffragando l’ipotesi che la destinazione d’uso originaria di questa
produzione tunisina presente nei mercati occidentali già da età adrianea fosse
quella di contenitore oleario152, contenevano resti organici riferibili a squame e
ossa di pesce153. Due anfore puniche con tracce di pesce sono state scavate
in una struttura edilizia afferente all’antica città di Olbia (Sardegna), adibita
147 Lentini-Savelli-Blackman 2005-2006, 100. 148 Mesić 2006, 95-98. 149 Isler 1998. 150 Pesavento Mattioli-Benvenuti 2001. Riflessioni metodologiche in Manacorda
2008, 100-101. 151 Barello 2002. 152 Bonifay 2004, 107. Si considerano anche le riflessioni effettuate sul contenuto
delle anfore africane in Bonifay-Garnier 2007 e Garnier 2007. 153 Auriemma 2000, 27-51. Nelle botti lignee rinvenute nel medesimo carico sono
stati rinvenuti frammenti di vetro destinati al riciclo (Toniolo 2005-2006).
148 Giacomo DISANTAROSA
a bottega per la vendita al dettaglio di merci alimentar
http://www.salvatoregemelli.com
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LE ANFORE: INDICATORI ARCHEOLOGICI DI PRODUZIONE, DELLE ROTTE COMMERCIALI E DEL REIMPIEGO NEL MONDO ANTICO
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