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Dalla scoperta dell'Antico all'archeologia moderna

Il Mondo dell'Archeologia (2002)
di Giovanni Rizza
Dalla scoperta dell'Antico all'archeologia moderna
Premessa
L'archeologia è una scienza storica che si distingue dalle altre discipline in quanto oggetto del suo studio sono i manufatti. Essa si propone di definirli nella loro materiale consistenza e di stabilirne la cronologia e il significato al fine di utilizzarli come documenti per la ricostruzione storica del passato. Nata all'origine come disciplina operante nell'ambito dell'antichità classica, l'archeologia ha progressivamente esteso, nel tempo e nello spazio, l'applicazione dei suoi metodi di indagine, sicché oggi, nella sua più vasta accezione, ha come oggetto di studio tutti i Paesi e tutti i popoli. Anche i limiti cronologici si sono dilatati, sicché la metodologia della ricerca archeologica viene applicata non solo a contesti molto antichi, come quelli preistorici, ma anche a contesti più vicini a noi, come quelli della civiltà medievale, o rinascimentale, o addirittura alla civiltà industriale, fino alle soglie del XX secolo. Data la vastità del campo di indagine, nonché la quantità e la varietà dei materiali, la ricerca archeologica si è andata specializzando in settori omogenei, sia in rapporto alle classi dei materiali studiati, come nel caso della numismatica o dell'epigrafia, sia in relazione alle diverse civiltà a cui la ricerca è applicata. In quest'ultimo caso, all'interno di una comune metodologia di base si sono andati costituendo settori autonomi, come l'archeologia orientale o americana, e si sono formate discipline, come l'egittologia, l'assiriologia, l'etruscologia, che allo studio dei manufatti associano quello della documentazione scritta. La civiltà greca e romana, nel cui ambito è nata la ricerca archeologica, rimane il campo di indagine dell'archeologia classica. La documentazione archeologica viene utilizzata da tutte le scienze dell'antichità, da ciascuna per il settore specifico di ricerca, dalla storia economica a quella politica, sociale, religiosa. L'archeologia, in particolare, rivolge la sua attenzione agli aspetti della cultura materiale e della cultura figurativa, l'una e l'altra strettamente legate al manufatto. Nelle civiltà povere di espressioni figurative la cultura materiale è, di necessità, unico o prevalente oggetto di studio; nella civiltà classica, greca e romana, il ruolo essenziale svolto dalle arti figurative assegna un posto di primaria importanza all'indagine storico-artistica.
Antichità classica e Medioevo
L'utilizzazione del manufatto come documento per la ricostruzione storica del passato era già conosciuta dai Greci: se ne servì Tucidide quando, per dimostrare che le isole dell'Egeo nei tempi più antichi erano abitate dai Cari, adduceva come prova il fatto che "quando gli Ateniesi (...) purificarono Delo ed ebbero asportato le tombe di quanti erano morti nell'isola, si vide che più di metà erano Cari, riconoscibili dalla forma delle armi con loro inumate e dal modo di seppellire" (Thuc., I, 8). Era anche conosciuta l'idea di una storia dell'arte. Ne ha conservato il ricordo Plinio nei frammenti senocratei dei libri XXXIV e XXXV della Naturalis historia: in essi artisti e opere d'arte, superando il livello della trattazione biografica e aneddotica, si collocano all'interno di un disegno storico fondato sui concetti di "evoluzione" e di "imitazione del naturale" e costruito sul confronto fra le innovazioni tecniche e gli aspetti formali per cui si erano distinti nel tempo pittori e scultori. Si tratta del punto più avanzato della riflessione tardoclassica ed ellenistica, ma di essa non si trovano sviluppi significativi né nella stessa cultura ellenistica, né nei secoli successivi; la storia dell'arte di Senocrate, largamente parafrasata e utilizzata, rimase un fatto isolato, mentre continuavano a svilupparsi interessi eruditi, biografici, aneddotici. Nel mondo antico il manufatto raramente venne pensato come documento del passato: vi fu anzi la tendenza ad attualizzarlo e a considerarlo in funzione del presente, sia che venisse ricondotto ad interessi pratici o religiosi, sia che si trattasse di opere d'arte, considerate dal punto di vista del godimento personale o finalizzate a funzione celebrativa, come le pitture trionfali, i ritratti, i monumenti onorari. La cultura tardoantica, e successivamente quella medievale, con l'avvento del Cristianesimo portarono alle estreme conseguenze una tale prospettiva con la teoria della funzione didascalica e di edificazione dei monumenti figurati, interpretati con la più assoluta indifferenza per il contesto storico di provenienza. Così avvenne per l'intera cultura classica, in cui civiltà greca e romana non vennero più distinte, ma unificate nell'unica e indiscriminata condanna del paganesimo; personaggi, fatti e monumenti del passato per la cultura tardoantica e medievale si collocarono in un'unità indistinta, senza tempo né spazio, che trovò il suo punto di riferimento in concetti di ordine morale e religioso. È il processo per cui Traiano fu assunto fra i beati per le sue opere e Virgilio diventò maestro di vita e guida nel viaggio ultraterreno di Dante.
L'Umanesimo e la nascita dell'archeologia
Agli inizi del XV secolo l'Umanesimo riportò all'interno di una prospettiva storica fatti, personaggi e monumenti del mondo antico: ne ricercò e ne studiò le testimonianze, ne assunse come modelli le opere letterarie e le opere d'arte. Raccolse, collezionò, studiò gli oggetti antichi, monete, iscrizioni e oggetti di uso comune, cercando in essi la documentazione dell'antico ad integrazione delle notizie desunte dalla tradizione scritta. Nacque così, di fatto, il primo impianto della ricerca archeologica, che si sarebbe andato sempre più ampliando, arricchendo e definendo in funzione delle esigenze a cui avrebbe dovuto rispondere. Fin dall'inizio si andarono delineando orientamenti settoriali, sia in rapporto ad interessi specifici, sia in relazione a particolari classi di materiali; tali orientamenti si possono considerare il presupposto per la formazione delle diverse discipline che oggi differenziano il campo di ricerca dell'archeologia. La Roma instaurata (1444-46) di Flavio Biondo da Forlì, il De Urbis (Romae) Antiquitatibus (1527) di A. Fulvio Sabino, la Antiquae Romae Topographia (1534) di B. Marliani e l'opera di T. Fazello sulla Sicilia (1558) possono essere considerati fra i primi studi di topografia antica; studi di iconografia sono già le Imagines et elogia virorum illustrium... (1570) di F. Orsini e l'opera di Agostino Veneto, Illustrium virorum (1569). Nel 1576 U. Goltz pubblicò un'opera di numismatica greca. La storia dell'arte antica è rappresentata da alcuni tentativi di disegnarne lo sviluppo come premessa a trattati di argomento più recente. Il primo tentativo è quello di L. Ghiberti nel primo volume dei Commentari (1447-50); un altro, più recente, è contenuto nel cosiddetto Anonimo Magliabechiano (1537-42); e infine è G. Vasari che nel proemio alle Vite (1568²) traccia un rapido profilo dello sviluppo dell'arte nell'antichità. Per tutti il punto di riferimento è Plinio, da cui vengono derivati non solo i dati relativi all'arte greca (tutti accuratamente riportati specialmente dopo che, nel 1504, si era resa disponibile la traduzione di C. Landino), ma anche il fondamento teorico che sta alla base del discorso senocrateo; in questo senso Plinio appare, insieme a Vitruvio, fonte primaria per la derivazione dei concetti di "evoluzione" e di "imitazione del vero" che svolsero un ruolo essenziale nella cultura artistica del Rinascimento. L'entusiasmo e l'interesse per il mondo antico erano alimentati dalle scoperte e dalla conoscenza di nuovi materiali, oggetto di interesse per gli studiosi e di ammirazione per gli artisti. "Quelli del tesoro", a detta di Vasari, venivano chiamati Brunelleschi e Donatello che vagavano fra i monumenti di Roma misurando gli antichi marmi; e a proposito di Andrea Pisano, è lo stesso Vasari che racconta come egli traesse giovamento dallo studio dei marmi che ai suoi tempi erano ancora intorno al Duomo e al Camposanto di Pisa. Sotto la spinta del doppio interesse, artistico e storico-documentario, si formarono le prime collezioni di oggetti antichi. Già nella prima metà del XV secolo, come riferisce Vasari, Cosimo e poi Lorenzo de' Medici diedero inizio alle raccolte fiorentine. Fra il 1430 e il 1440 i Gonzaga iniziarono a Mantova la loro collezione d'arte e nel 1471, a Roma, Sisto IV trasferì in Campidoglio alcune pregevoli opere in bronzo che si trovavano in Laterano, costituendo il primo nucleo della celebre raccolta capitolina. Nel 1506 Giulio II riunì nel cortile del Belvedere numerose opere d'arte antica, fra cui il Laocoonte, la statua colossale del Nilo e l'Apollo del Belvedere, dando inizio a quelli che saranno i Musei Vaticani. A Venezia nel 1523 la Repubblica acquisiva la collezione del cardinale D. Grimani, che veniva collocata nel Palazzo Ducale. A Palermo nel 1570 una collezione di sarcofagi, statue e iscrizioni fu sistemata nel palazzo municipale. Collezioni cominciavano intanto a formarsi anche fuori d'Italia: in Francia Francesco I raccoglieva sculture antiche, Ferdinando I metteva insieme il primo nucleo di quello che sarà il Kunsthistorisches Museum.
Viaggiatori, antiquari, accademie nell'Europa del XVII e XVIII secolo
La centralità dell'Italia nel Rinascimento e l'interruzione dei rapporti con la Grecia in seguito all'occupazione turca avevano fatto sì che fino a tutto il XVI secolo la conoscenza del mondo antico fosse fondata sui monumenti di Roma. Il XVII secolo segnò la ripresa dei rapporti con l'Oriente egeo e l'apertura della cultura europea all'arte e alle antichità della Grecia. Già nel XV secolo un commerciante di Ancona, Ciriaco de' Pizzicolli, fra il 1412 e il 1448, aveva viaggiato attraverso la Grecia e le coste dell'Asia Minore conservando dettagliata memoria di quanto aveva visto, ma solo nel XVII secolo furono effettuati frequenti viaggi in Oriente che portarono ad una diretta conoscenza del mondo ellenico e delle antichità di Atene in particolare. Fra il 1675 e il 1676 J. Spon, un medico di Lione, visitò la Grecia insieme all'inglese G. Wheeler; la relazione del viaggio, pubblicata nel 1678, ci conserva il ricordo dell'Acropoli di Atene prima dell'esplosione causata dal bombardamento di F. Morosini del 1687. Memoria della situazione precedente al disastro ci conservano anche i disegni lasciati dal pittore fiammingo J. Carrey, che visitò Atene nel 1674 al seguito del marchese Ch.-F. Ollier de Nointel, ambasciatore di Francia in Turchia. Viaggi in Grecia e in Levante fecero anche in quegli anni L. de Hayes, per incarico del re di Francia, N.-C. Fabri de Peiresc (1580-1637) e il conte A.-C.-Ph. de Caylus (1692-1765), che agli inizi del secolo successivo viaggiò in Grecia e in Asia Minore raccogliendo materiali per la sua collezione. Nel 1732 fu fondata a Londra la Società dei Dilettanti, che ebbe un ruolo di primo piano nell'esplorazione della Grecia e del Levante. Fra il 1751 e il 1754 il pittore J. Stuart e l'architetto N. Revett organizzarono una spedizione ad Atene, dove soggiornarono per tre anni disegnandone e descrivendone i monumenti; i risultati furono pubblicati fra il 1762 e il 1816 nelle Antiquities of Athens. La Società dei Dilettanti, che aveva finanziato l'opera, organizzò anche, nel 1764, una spedizione in Asia Minore, a cui presero parte lo stesso Revett e, inoltre, R. Chandler e W. Pars; i risultati furono pubblicati nelle Antiquities of Jonia fra il 1769 e il 1797. Membri della Società erano anche J. Dawking e R. Wood, che negli stessi anni visitarono il Vicino Oriente, pubblicando poi i risultati delle ricerche nelle Ruins of Palmyra del 1753 e nelle Ruins of Baalbek del 1757. Il respiro europeo che andò assumendo il rapporto col mondo classico si riflette anche nella distribuzione delle opere d'arte e nello sviluppo dei musei e delle collezioni di antichità. Già nel XVII secolo, mentre a Roma si riempivano di opere d'arte le ville e i palazzi delle famiglie patrizie, a Oxford, nel 1672, si inaugurò l'Ashmolean Museum le cui collezioni furono aperte al pubblico. La tendenza si accentuò nel corso del XVIII secolo: nel 1759 fu aperto al pubblico il British Museum; del 1778 è il Museum Friedericianum di Kassel; del 1786 l'Albertinum di Dresda. In Russia, nel 1779, venne aperto l'Ermitage; a Parigi, nel 1791, in seguito ad un voto dell'Assemblea costituente, le collezioni reali vennero riunite nel palazzo del Louvre; a Berlino, nel 1797, venne costituito il Museo di Antichità. Fin dal loro nascere, collezioni pubbliche e private erano state alimentate da rinvenimenti fortuiti, da spoliazioni di edifici antichi, dall'importazione di antichità dai Paesi del Mediterraneo orientale. Agli inizi del XVIII secolo si fece strada l'idea di scavi sistematici, finalizzati inizialmente al recupero di oggetti antichi, ma presto anche all'individuazione di edifici e strutture murarie. A Roma, nel 1720, furono iniziati scavi nella proprietà Farnese, sul Palatino. Nel 1738 il re di Napoli, Carlo di Borbone, fece iniziare gli scavi di Ercolano che furono continuati fino al 1766. Nel 1743 ebbero inizio gli scavi di Pompei. A Catania, negli stessi anni, il principe di Biscari, I. Paternò Castello, ebbe dal Senato l'autorizzazione a condurre scavi nel sottosuolo della città. Come punto di riferimento per gli studiosi e per gli amanti delle antichità nacquero le prime istituzioni; società e accademie, punti di incontro per gli studiosi e sedi di discussioni e di dissertazioni, si fecero anche promotrici di pubblicazioni, di spedizioni e di viaggi, come nel caso della Società dei Dilettanti. Nel 1665 Luigi XIV aveva fondato l'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres come sezione dell'Institut de France. Nel 1718 fu costituita a Londra la Society of Antiquaries che ricevette lo statuto reale nel 1751; in Italia fu fondata nel 1727 l'Accademia Etrusca di Cortona; a Firenze nel 1735 nacque la Società Colombaria per lo studio degli antichi sepolcri. A Napoli Carlo di Borbone, in connessione con gli scavi di Ercolano, fondò nel 1755 la Reale Accademia Ercolanese. A Roma papa Benedetto XIV fondò l'Accademia di Antichità Profane che nel 1831 si trasformò nella Pontificia Accademia di Archeologia e Belle Arti. La produzione scientifica continuò seguendo alcuni indirizzi di ricerca specializzata già avviati nel primo Rinascimento e che avrebbero avuto un loro sviluppo autonomo: nel filone degli studi di topografia antica rientrano i due volumi di F. Cluverio (1580-1623), Italia antiqua e Sicilia antiqua; la Ichnographia veteris Romae, in cui G.P. Bellori (1613-1696) pubblicò e illustrò la Forma Urbis; l'opera di F. D'Orville sulla Sicilia antica. Trattazioni specifiche di numismatica si ebbero con le opere di F. Paruta, e poi del principe di Torremuzza, G.L. Castelli; sulle monete della Sicilia scrissero il Mionnet e l'abate D. Sestini. Di epigrafia si occuparono il Gualterius per la Sicilia, S. Maffei per Verona, il Grueter (Inscriptiones antiquae totius orbis romani, 1603) e G.B. Doni (Inscriptiones antiquae, 1731) in opere di carattere generale. Un genere di pubblicazione che ebbe inizio e fortuna nel XVII secolo è quello dei lessici o repertori di materiali sistematicamente ordinati per tipologia o per argomenti; un precedente di quelli che saranno i nostri corpora. I più noti sono il Thesaurus Antiquitatum Graecarum del Gronovius, le Antiquitates romanae del Graevius e, nel XVIII secolo, il Recueil d'antiquités del conte de Caylus e L'antiquité expliquée en figures di B. de Montfaucon; quest'ultimo, in dieci volumi, è ordinato per argomenti e diviso in cinque sezioni: mitologia, culti, antichità private, militari, funerarie. Con la pubblicazione dell'opera dello scozzese Th. Dempster, De Etruria regali (redatta tra 1616 e 1618, pubblicata tra 1723 e 1726), ebbero inizio gli studi sul mondo etrusco; ad essi dedicò la sua attività l'Accademia di Cortona, che fra il 1738 e il 1785 pubblicò nove volumi di saggi e dissertazioni sulle antichità etrusche; di pittura etrusca si occupò G.B. Passeri (1610-1679) e A.F. Gori (1691-1757) pubblicò Museum Etruscum (1737-43). Anche i problemi delle origini e della lingua degli Etruschi furono affrontati da M. Guarnacci nell'opera Origini italiche. Fuori d'Italia l'interesse per le antichità locali ebbe particolare sviluppo nei Paesi del Nord e Centro Europa, dove eruditi e antiquari furono particolarmente attivi a partire dal XVI secolo: in Inghilterra J. Leland (1503-1552), nominato nel 1533 Antiquario del Re, viaggiò e descrisse monumenti e oggetti di interesse antiquario. Nel 1586 W. Camden (1551-1623), viaggiatore e conoscitore dei monumenti romani e medievali, pubblicò Britannia, una guida generale delle antichità britanniche che ebbe numerose edizioni. Nel XVII secolo R. Plot (1640-1696) e E. Lhwyd (1660-1708), che si succedettero nella carica di curatori dell'Ashmolean Museum, continuarono la tradizione di studi di Leland e Camden, mentre J. Aubrey (1626-1697), ottimo ricercatore sul terreno, pubblicò le antichità di Stonehenge e di Avebury, che interpretò come monumenti druidici. In Scandinavia fu particolarmente curata l'organizzazione degli studi. In Danimarca alla fine del XVI secolo era già iniziata la registrazione dei monumenti locali a cura della pubblica autorità. A Copenaghen, nel 1643, O. Worm (1588-1654) pubblicò Monumenta danica e Fasti danici; costituì anche un museo misto di manufatti antichi e di rari esemplari della flora e della fauna, il cui catalogo fu pubblicato postumo nel 1655 (Museum Wormianum). La sua collezione, passata al re Federico III, costituì il primo nucleo del Museo di Copenaghen, che ebbe un ruolo di primo piano negli studi di preistoria. In Svezia Gustavo Adolfo II assegnò la carica di Antiquario Reale al suo precettore, J. Bure (1568-1652), studioso di antichità runiche, che pubblicò Monumenta Svevo-Gothica Hactenus Exculpta e Monumenta Runica. Nel 1662 fu istituita all'Università di Uppsala una cattedra di antichità di cui fu primo titolare O. Verelius. L'interesse per le antichità locali si ampliò e si intensificò nel XVIII secolo, sollecitato anche da sentimenti di patriottismo. In Germania venne riscoperta l'opera di Tacito sui Germani; in Francia l'attenzione fu rivolta ai Celti; in Boemia il Bienenberg (1731-1798), e specialmente J. Dobrovski (1753- 1829), diedero inizio agli studi slavi; in Danimarca E. Pontoppidan (1698-1764) eseguì scavi e ricerche sul terreno e nel 1763 pubblicò i risultati dei suoi studi in Den danske Atlas 1. In Inghilterra il maggiore rappresentante degli studi antiquari fu W. Stukeley, che fu anche il primo segretario della Society of Antiquaries. Il suo interesse per gli antichi Britanni, per i Druidi e per il mondo medievale lo avvicinò al movimento romantico che in quegli anni si andava manifestando come reazione conservatrice al Classicismo e all'Illuminismo. Eseguì anch'egli scavi e ricerche sul terreno e pubblicò Itinerarium curiosum (1725), Stonehenge (1740), Avebury (1743), tutte opere di notevole livello per quel tempo.
J.J. Winckelmann e gli studi di storia dell'arte
Lo sviluppo della ricerca antiquaria su scala europea coincise con i movimenti religiosi che portarono la Chiesa alla Controriforma e ad una posizione reazionaria di ritorno al dogmatismo religioso medievale; il polo opposto fu costituito dal progresso delle scienze esatte (da Galileo a Newton) e dallo sviluppo del pensiero storico e filosofico che ebbe nell'Illuminismo la sua manifestazione più rilevante. La ricerca antiquaria rimase estranea al fermento delle nuove idee; chiusa nell'ambito delle accademie, si limitò a rispondere alla diffusa esigenza di rigore scientifico, sia con studi specialistici, sia con l'ordinamento sistematico dei lessici, ma spesso la ristrettezza degli orizzonti e il gusto per lo sfoggio di erudizione fecero scadere questa produzione a livelli che spiegano le accuse di inutilità che le vennero rivolte. Mentre la ricerca antiquaria rimaneva sempre più chiusa e isolata nell'ambito dell'erudizione accademica, fu lo studio delle opere d'arte che, coinvolgendo gli studiosi di antichità nel dibattito sull'essenza del bello e sull'attività artistica, diede l'occasione per percorrere vie nuove. Per i teorici del Rinascimento le arti dovevano imitare la natura fondandosi sull'osservazione scientifica del mondo esterno. La letteratura artistica del Seicento sosteneva che la bellezza in natura è offuscata dalla presenza della materia e che solo l'arte può trarre dalla natura la bellezza ideale; l'artista pertanto non deve imitare la natura, ma le opere d'arte in cui il bello è già realizzato. La teoria, che rovesciava il concetto rinascimentale della libera interpretazione della realtà per accostarsi al concetto dogmatico di modello proprio della Controriforma, trovò la sua formulazione definitiva nel XVII secolo ed ebbe come massimo rappresentante G.P. Bellori, che la espose nella introduzione alle Vite dei pittori, scultori e architetti moderni pubblicata nel 1674. Egli accolse anche l'idea, per la prima volta avanzata dai Carracci a Bologna, che il vero modello a cui guardare era l'arte greca, che più di ogni altra aveva realizzato l'idea del bello. Questa teoria fu al centro degli studi di J.J. Winckelmann (1717-1768), che attorno ad essa costruì per la prima volta una storia dell'arte. Entusiasta ammiratore dell'arte greca, che pur conosceva attraverso le copie di età romana, Winckelmann andò alla ricerca dell'essenza dell'arte attraverso l'esame del suo sviluppo storico, convinto che le sue più alte manifestazioni coincidessero con la realizzazione del bello. Nella massa delle opere d'arte, in cui gli antiquari avevano fino a quel momento ricercato le testimonianze della vita e dei costumi degli antichi, egli distinse quattro stili (antico, sublime, bello, di imitazione), che dispose in successione nel tempo con un criterio evoluzionistico in cui il momento più alto era toccato dallo stile sublime. Nella Geschichte der Kunst des Altertums (1764), in cui Winckelmann espose nella maniera più completa le sue idee, alla parte teorica riguardante l'essenza dell'arte seguiva una seconda parte, più propriamente storica, in cui l'analisi delle opere d'arte era integrata con le notizie delle fonti, in particolare di Plinio. Attraverso l'uso integrato di fonti e monumenti egli costruì un grande disegno storico in cui la massa delle sculture antiche, rimaste fino a quel momento congerie indistinta di opere prive di prospettiva storica e di definizione cronologica, trovò una sistemazione organica, fondata su criteri stilistici, che meraviglia per la chiarezza e l'acume con cui furono individuate le grandi fasi dell'arte antica in un quadro che ancora oggi rimane valido nelle sue linee generali. Con la sua "storia dell'arte" ellenocentrica, in cui tutto il materiale fino a quel momento conosciuto trovava una sistemazione organica integrata e confermata dalle testimonianze degli scrittori antichi, Winckelmann contribuì più di ogni altro ad orientare nel XVIII secolo, e per tutto il secolo successivo, la ricerca archeologica verso il mondo greco e a collocare in secondo piano l'archeologia romana. Dal punto di vista metodologico, le due grandi vie aperte da Winckelmann furono il criterio stilistico e lo studio associato di fonti e monumenti finalizzato all'identificazione delle opere dei grandi maestri greci. Su questa strada i suoi immediati continuatori tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo ottennero i primi importanti risultati: già Winckelmann aveva riconosciuto l'Apollo Sauroctonos di Prassitele; nel 1783 C. Fea (1753-1836) identificò il Discobolo di Mirone; E.Q. Visconti (1751-1818) con la identificazione della Afrodite Cnidia fece conoscere meglio Prassitele e sempre lavorando sulle copie romane riconobbe anche il Ganimede di Leochares e la Tyche di Euthichides. Nel 1821 A. Nibby (1792-1839) riconobbe nel cosiddetto "gladiatore morente" un gruppo del grande donario degli Attalidi, allargando all'arte pergamena la conoscenza della scultura ellenistica.
La nascita delle scienze preistoriche
Mentre l'archeologia classica percorreva a grandi passi la via della storia dell'arte, l'antiquaria centro- e nordeuropea, che disponeva prevalentemente di materiali preistorici difficilmente ricollegabili alla tradizione letteraria, veniva influenzata nell'interpretazione dei manufatti da metodi e procedimenti delle scienze naturali, geologiche ed etnologiche. Era spinta in questa direzione anche dalla costituzione di musei misti, di scienze naturali, di etnologia e di antichità, che agevolavano l'applicazione degli stessi metodi alle diverse classi di materiali e davano l'occasione del confronto fra di essi. Una classe di materiali particolarmente discussa fu quella dei manufatti litici, utensili ed armi di pietra interpretati fin dal Medioevo come meteoriti; per la loro alta antichità non si osava attribuirli alla mano dell'uomo, la cui creazione, secondo la cronologia biblica dedotta da Eusebio, doveva cadere intorno al 4000 a.C. Ma quando, con la scoperta dell'America, fu nota l'esistenza di popolazioni primitive che si servivano di armi e utensili di pietra perfettamente simili ai "meteoriti", il palese confronto fece progredire l'idea che si trattasse di prodotti dovuti alla mano dell'uomo. L'ipotesi, già avanzata nel XVI secolo da M. Mercati (1541- 1593), fu accolta sempre più decisamente dagli antiquari del XVII e XVIII secolo, fra i quali si fece strada anche l'idea che le armi di pietra erano usate da quei popoli che non avevano ancora raggiunto la capacità di lavorare il ferro o il bronzo per tali usi. Si ponevano così le premesse per l'impianto di una successione cronologica fondata sullo sviluppo tecnologico. La teoria delle tre età distinte su base tecnologica fu accolta fin dal XVIII secolo in opere di carattere storico, specialmente in Danimarca, ma diventò strumento metodologico di ricerca per l'archeologia solo agli inizi del XIX secolo con Ch.J. Thomsen (1788-1865), che se ne servì per ordinare le collezioni di antichità del Museo di Copenaghen nei tre grandi periodi della Pietra, del Bronzo e del Ferro ed espose i criteri usati per la classificazione in una guida pubblicata nel 1836. La validità del criterio delle tre età fu confermata da J.J.A. Worsaae (1821-1885), che fu prima assistente e poi successore di Thomsen; egli applicò la teoria usata per l'ordinamento del museo ai materiali provenienti da scavi sistematici e ne dimostrò la validità mediante la conferma della successione stratigrafica. Worsaae, che pubblicò i primi risultati delle sue ricerche nel 1843 (Danmarks Oldtid), risentì certamente dell'influenza degli sviluppi delle scienze geologiche che andavano in quegli anni raffinando i metodi dell'indagine stratigrafica applicandola alle stratificazioni geologiche e allo studio dei fossili che vi erano contenuti; Strata Identified by Organized Fossils era stato infatti pubblicato nel 1816 da W. Smith (1769-1839) e i Principles of Geology di Ch. Lyell (1797-1875) sono degli anni 1830-33. Sulla scia delle scienze geologiche si era andato intanto sviluppando un altro filone di ricerca che portò al riconoscimento dell'alta antichità di taluni manufatti litici e quindi della comparsa dell'uomo sulla Terra. Nel 1838 J. Boucher de Perthes (1788-1868) trovò nei dintorni di Abbeville una serie di manufatti litici associati con fauna fossile in depositi di ghiaia "diluviale" e ne sostenne la contemporaneità. I manufatti litici raccolti in questi antichissimi strati, confrontati con quelli provenienti dagli insediamenti palafitticoli che nel frattempo si andavano scoprendo nei laghi svizzeri, mostravano tuttavia notevoli differenze nella tecnica di lavorazione, sicché in Francia prevalse la distinzione dell'età della Pietra nelle due età de la pierre taillée e de la pierre polie. Le denominazioni di Paleolitico e Neolitico vennero usate per la prima volta da J. Lubbock (1834-1913) in Prehistoric Times pubblicato nel 1865. A partire da quegli anni i materiali preistorici trovarono in questo schema la loro sistemazione, mentre la preistoria come disciplina acquistava una piena autonomia di metodo.
L'Egitto e L'Oriente
Agli inizi del XIX secolo si aprì alla cultura europea anche la conoscenza delle civiltà dell'Egitto e del Vicino Oriente. Quanto all'Egitto, a partire da Erodoto, i Greci ne avevano lasciato descrizioni e notizie; un contatto diretto con l'arte egizia derivava inoltre dalla conoscenza di numerosi monumenti (statue, rilievi, scarabei, obelischi) che erano venuti alla luce specialmente a Roma e che era possibile vedere e studiare nelle collezioni romane. Su questo materiale nel 1764 Winckelmann fondò le sue considerazioni sull'arte egizia e alla fine del secolo G. Zoega (1755-1809), in una dotta opera sugli obelischi pubblicata nel 1797, tentò la decifrazione della scrittura geroglifica distinguendo i segni ideografici da quelli fonetici e riconoscendo il significato dei cartigli. Mancava tuttavia la conoscenza diretta della regione, di non facile accesso, e soprattutto non si aveva idea della grande architettura templare. La spinta decisiva allo sviluppo degli studi di egittologia fu data dalla campagna militare di Napoleone in Egitto: salpato da Tolone nel 1798, egli infatti aggregò alla spedizione una commissione scientifica di 167 membri che iniziò la sua attività appena sbarcata al Cairo, dove fondò l'Istituto egizio e riuscì in breve tempo a raccogliere una straordinaria quantità di materiali; nel 1799 fu scoperta la Stele di Rosetta con l'iscrizione in geroglifico, demotico e greco che avrebbe permesso la decifrazione dei testi egizi. Animatore della spedizione scientifica era stato D.V. de Denon (1747-1825), che nel 1802 pubblicò un resoconto dei suoi viaggi in Egitto. Il materiale di studio raccolto dalla commissione fu portato a Parigi; fra il 1809 e il 1813 F. Jérôme ne curò la pubblicazione nella serie in folio della Description de l'Égypte. Nel 1808 J.-F. Champollion (1790-1832) iniziò lo studio della Stele di Rosetta che decifrò e pubblicò nel 1822, aprendo così la strada alla comprensione della lingua e dei monumenti dell'antico Egitto. Nominato subito dopo curatore del Louvre, Champollion organizzò nel 1828 una nuova spedizione alla quale associò il suo allievo I. Rosellini (1800-1843). La Spedizione franco-toscana si spinse a sud fino oltre la prima cataratta, ma ebbe limitata possibilità di interventi. Nel 1842, sotto la direzione di R. Lepsius (1810-1884), i Tedeschi organizzarono un'altra spedizione che condusse per tre anni ricerche sistematiche spingendosi a sud fino a Khartum e nel territorio del Sinai; l'importanza dei risultati raggiunti è documentata dall'istituzione del Museo Egizio di Berlino. Già con la spedizione di Lepsius l'egittologia raggiunse la sua piena autonomia scientifica. Negli stessi anni in cui la spedizione di Lepsius si trovava in Egitto si ebbero le prime scoperte in Mesopotamia. Qui le uniche fonti di informazione erano i pochi riferimenti degli scrittori greci e la Bibbia, e fu soprattutto il rapporto di queste regioni col mondo biblico che tenne desta l'attenzione del grande pubblico e sollecitò l'interesse per le ricerche nel Vicino Oriente. Numerosi viaggiatori e mercanti fin dal XVI secolo avevano visitato la regione spingendosi fino all'Iran e all'India. Nel XVII secolo il patrizio romano P. Della Valle (1586-1652) descrisse per primo le rovine di Persepoli e trascrisse i primi segni della scrittura cuneiforme. A Persepoli tornò nel 1765 il danese C. Niebuhr (1733-1815), che dedicò particolare attenzione alle iscrizioni cuneiformi di cui identificò i segni costitutivi e alcuni caratteri fondamentali. Le ricerche di Niebuhr diedero la spinta ad ulteriori studi sulla scrittura cuneiforme, che nel 1802 fu decifrata da G.F. Grotefend (1775-1855) e, una trentina di anni dopo, in maniera indipendente, da H.C. Rawlinson (1810-1895). La possibilità di leggere i testi diede una maggiore concretezza e risonanza alla scoperta della civiltà assira che avvenne fra il 1842 e il 1844 ad opera di P.-É. Botta (1802-1870), da poco nominato console francese a Mossul. Nel 1842 egli iniziò lo scavo sulla collina di Kuyungik, dove Niebuhr aveva correttamente localizzato il sito dell'antica Ninive, ma non avendo avuto alcun risultato l'anno successivo si spostò circa 16 km più a sud, sulla collina di Khorsabad, dove mise in luce un grandioso palazzo, ricco di decorazioni scultoree e di iscrizioni. Botta ritenne di aver scoperto Ninive, ma in realtà si trovava a Dur-Sharrukin, la città che il re Sargon II aveva costruito alla fine dell'VIII sec. a.C. dopo la presa di Babilonia. Le sculture di Khorsabad, arrivate a Parigi nel 1847, destarono enorme impressione: le scoperte furono pubblicate negli anni 1849-50 in un'opera in cinque volumi intitolata Monuments de Ninive. Negli stessi anni un giornalista e viaggiatore inglese, sir Austen Henry Layard (1817-1894), iniziò gli scavi sulla collina di Nimrud scoprendo l'antica Kalkhu che egli ritenne essere Ninive. Il ricco bottino di materiali fu inviato al British Museum che nel 1849 diede i fondi per una seconda spedizione: sulla collina di Kuyungik, la vera Ninive, Layard scoprì il gigantesco palazzo di Sennacherib (705-681 a.C.) e fino al 1851 condusse altri scavi a Nimrud, Assur e Babilonia. La scoperta della civiltà assira aveva aperto la conoscenza delle civiltà mesopotamiche fra il IX e il VII sec. a.C., ma già intorno alla metà dell'Ottocento alcune ricerche condotte nelle regioni meridionali avevano fatto intravedere la possibilità di risalire molto più in alto verso le origini. Intorno al 1850 il geologo sir William Kennet Loftus scavò a Warka il sito di Uruk, mentre negli anni 1854-55 il viceconsole inglese di Bassora, J.E. Taylor, scavò il sito di Eridu e il tell che copriva la ziqqurrat di Ur dei Caldei. Lo scoppio della guerra di Crimea, nel 1855, fermò per un ventennio le attività archeologiche in Mesopotamia, ma erano già avviate le ricerche sulla civiltà sumerica, mentre l'assiriologia acquistava anch'essa, come l'egittologia, piena autonomia scientifica. Tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento venne anche avviata, ad opera degli Inglesi, la ricerca archeologica in India: nel 1784 sir William Jones (1746-1794) fondò a Calcutta la Royal Asiatic Society, che si proponeva di "studiare la storia e le antichità, le arti, le scienze e la letteratura dell'Asia"; presto furono iniziate vere e proprie ricerche archeologiche, a cui diede notevole impulso, intorno agli anni Trenta, J. Prinsep (1799- 1840), segretario della Società fra il 1832 e il 1838. L'interesse per le antichità indiane trovò anche appoggio nel fatto che il sanscrito veniva messo in relazione con le principali lingue europee e sembrò pertanto che potesse contribuire alla comprensione dell'antica cultura indoeuropea. Particolare attenzione venne inoltre rivolta alle ricerche nelle regioni nord-occidentali del Paese per i rapporti che esse documentavano con le culture mediterranee. Le ricerche archeologiche in India assunsero un definitivo carattere di sistematicità con l'istituzione della Archaeological Survey of India fondata dal generale A. Cunningham nel 1861.
Le Americhe
Per quel che riguarda l'America, il primo problema che si pose dopo la scoperta del Nuovo Continente fu quello delle origini delle popolazioni locali. Circa la loro identità e provenienza furono avanzate le ipotesi più singolari, ma in ogni caso prevalse la tendenza a considerarle popolazioni inferiori, con lo scopo implicito di creare le premesse teoriche per legittimare la loro emarginazione e sistematica distruzione. Il problema divenne archeologico quando si pose la questione dei mounds o grandi tumuli di terra frequenti nelle regioni centrali e sud-occidentali dell'America Settentrionale. Non si voleva ammettere che fossero stati costruiti dalle popolazioni indigene ancora presenti in America considerate di livello inferiore; pertanto fu anche supposta l'esistenza di popolazioni più antiche, di un più alto livello di civiltà, successivamente scomparse. Il problema dei mounds e l'esigenza di conoscerne la natura spinsero tra il 1781 e il 1782 Th. Jefferson (1743-1826), che fu poi presidente degli Stati Uniti, a tagliarne uno che si trovava nella sua proprietà e a registrare accuratamente i dati offerti dallo scavo. È stato osservato che quello di Jefferson fu il primo scavo eseguito per risolvere un problema e non per recuperare degli oggetti. Allo studio dei mounds americani è anche legata la scoperta della datazione con la tecnica della dendrocronologia. La ricerca archeologica in America trovò un punto di riferimento nel 1812, quando I. Thomas fondò la American Antiquarian Society nel Massachusetts; il primo volume delle Transactions, pubblicato nel 1820, conteneva la Description of the Antiquities Discovered in the State of Ohio and Other Western States, di C. Atwater (1778-1867), che riguardava il problema sempre attuale dei mounds. Atwater descrisse e ubicò i tumuli della regione e propose una classificazione in tre periodi, attribuendo il più antico agli Indù, provenienti dall'India e diretti in Messico. Un altro importante contributo all'archeologia americana fu dato nel 1848 dalla pubblicazione di Ancient Monuments of the Mississippi Valley di E.G. Squier (1821-1888) e E.H. Davis (1811-1888), ma anche in questo caso la tendenza speculativa, erede delle polemiche sui costruttori dei mounds e della tesi preconcetta della incapacità delle popolazioni locali, si sovrappose al rigore della ricerca scientifica con la decisa affermazione, non sostenuta da alcun dato di fatto, dell'esistenza di una "razza perduta" dei costruttori dei tumuli. Su questo problema si appuntò in maniera particolare la critica di S. Haven (1806-1881), che nel 1856 pubblicò una revisione critica dell'archeologia americana (The Archaeology of the United States) in cui vennero rigorosamente esaminati i risultati della ricerca archeologica in America Settentrionale. Il libro di Haven, un modello di ricerca per gli archeologi americani, fu pubblicato dalla Smithsonian Institution inaugurata nel 1846. Il segretario della fondazione, J. Henry, con lo scopo di favorire il progresso della ricerca archeologica in America, curò la pubblicazione, nell'Annual Report of Smithsonian Institution, di un notiziario sistematico degli sviluppi dell'archeologia in Europa; l'opera svolta dalla Smithsonian ebbe una fondamentale importanza nello sviluppo dell'archeologia americana. Mentre negli Stati Uniti si discuteva sui mounds, l'attenzione degli studiosi europei si rivolse alle civiltà della Mesoamerica. Nel 1799 A. von Humboldt (1769-1859) iniziò un viaggio di studio in America che doveva durare cinque anni; visitò alcuni importanti centri del Messico e portò in Europa una enorme quantità di materiale scientifico che fu pubblicato a partire dal 1807. Negli stessi anni (1805, 1806, 1807), per incarico di Carlo IV di Spagna, il capitano francese G. Dupaix organizzò tre spedizioni in Messico con la collaborazione del disegnatore L. Castañeda. Altri viaggi furono organizzati dal conte J.F. Waldeck (1766-1875) e successivamente dall'americano J.L. Stephens (1805-1852), che nel 1841 rese noti i risultati dei suoi viaggi nel volume Incidents of Travel in Central America, Chiapas and Yucatan. Waldeck, colpito dalle somiglianze con i monumenti dell'antico Egitto, sostenne l'origine egizia delle antiche civiltà del Messico e suppose che il passaggio fosse avvenuto tramite il continente perduto dell'Atlantide. Stephens invece si attenne strettamente ai dati archeologici e sostenne che i grandiosi monumenti della Mesoamerica andavano attribuiti "alle stesse razze che abitavano il paese al tempo della conquista spagnola". La pubblicazione di Stephens ebbe una forte influenza sull'archeologia mesoamericana, simile a quella esercitata qualche anno dopo negli Stati Uniti dal libro di Haven e come quello segnò una svolta nell'archeologia americana che a partire dagli anni Sessanta si orientò verso una maggiore professionalità e un maggiore rigore scientifico.
L'archeologia classica nel XIX secolo
In Europa l'archeologia classica, sotto l'influenza di Winckelmann, continuò per tutto il XIX secolo a privilegiare le antichità greche, e in particolare gli studi di storia dell'arte, anche se Winckelmann e i suoi immediati continuatori avevano lavorato quasi esclusivamente su copie di età romana. Solo agli inizi del XIX secolo fu possibile infatti apprezzare i primi originali greci che cominciarono ad affluire nei principali musei europei: nel 1816 furono acquisite dal British Museum le sculture del Partenone che lord Thomas Bruce Elgin (1766-1841) fra il 1800 e il 1803 aveva asportato dall'Acropoli; nel 1812 Luigi di Baviera acquistò per la Gliptoteca di Monaco i gruppi frontonali prelevati dal tempio di Aphaia ad Egina dagli architetti inglesi Ch.R. Cockerell e J. Foster; e due anni dopo furono ancora acquistate dal British Museum le sculture che lo stesso Foster, con altri, aveva portato via dal tempio di Apollo Epicurio a Bassae. Sempre al British Museum finirono le sculture di Xanthos ad opera di sir Charles Fellows, fra il 1838 e il 1848, e le sculture del Mausoleo di Alicarnasso in parte recuperate nel Castello di Bodrum nel 1846 e in parte rinvenute da Ch.Th. Newton (1816-1894) nel 1857 con uno scavo nel sito del Mausoleo. Nella prima metà del secolo era così rappresentata a Monaco la scultura arcaica di fine VI - inizi V sec. a.C., e a Londra si poteva avere una cognizione diretta della scultura fidiaca e postfidiaca, degli scultori che nel IV sec. a.C. avevano lavorato al Mausoleo, dell'arte ionica di Asia Minore. La conoscenza diretta della scultura greca arcaica di Occidente aveva inizio con le metope del Tempio C e del Tempio F, scoperte a Selinunte nel 1823 dagli architetti inglesi S. Angell e W. Harris, e successivamente con le metope del Tempio E recuperate nel 1831 dal duca di Serradifalco D. Lo Faso Pietrasanta e da F.S. Cavallari. Molta strada faceva nel contempo la conoscenza dell'architettura greca ad opera dei numerosi architetti che percorrevano in largo e in lungo i Paesi classici. In quegli stessi anni un impulso notevole al progresso degli studi fu dato dall'attività svolta dall'Istituto di Corrispondenza Archeologica (dal 1874 Istituto Archeologico Germanico) fondato a Roma nel 1829: il suo primo segretario, E. Gerhard (1795-1867), fece convergere attorno all'Istituto l'attività di un gran numero di archeologi, promosse cataloghi di musei ed edizioni sistematiche di materiali, seguì scavi e scoperte specialmente in Etruria e in Italia e ne promosse la pubblicazione. Un contributo fondamentale agli studi di ceramica greca è il suo Rapporto Volcente pubblicato nel 1831. A Roma, qualche anno dopo, ebbero notevole sviluppo gli studi di archeologia cristiana, prima ad opera di G. Marchi (1795-1860), poi per merito di G.B. De Rossi (1822-1894) che con la sua attività di ricerca nelle catacombe portò lo studio delle antichità cristiane al rango di disciplina autonoma, sottraendola al ruolo di scienza sussidiaria delle discipline teologiche; fu anche eccellente epigrafista ed uno dei fondatori di questa scienza. Il corpus delle Inscriptiones Christianae Urbis Romae (Roma 1861-88) e la Roma sotterranea cristiana (I-III, Roma 1864, 1867, 1877) collocarono le ricerche di archeologia cristiana al più alto livello scientifico. Intorno alla metà del secolo andarono maturando le condizioni per l'adozione di più rigorosi metodi di lavoro. A Pompei, dopo il 1860, la direzione degli scavi fu affidata dal governo italiano a G. Fiorelli (1823-1896) che li condusse con grande rigore scientifico e in base ad una sistematica programmazione; i suoi studi sulle fasi architettoniche della città si fondarono su precise osservazioni stratigrafiche, con un metodo che nel campo dell'archeologia classica cominciò ad essere sempre più decisamente influenzato dai procedimenti della ricerca preistorica. Gli scavi di Pompei portarono un contributo fondamentale alla conoscenza della pittura antica, specialmente ad opera di W. Helbig (1839-1915) e di A. Mau (1840-1909), che utilizzò i materiali pompeiani come base per una classificazione della pittura parietale romana dagli inizi del I sec. a.C. alla fine del I sec. d.C. Alla conoscenza della pittura antica importanti apporti diedero negli stessi anni le scoperte nelle necropoli etrusche e gli scavi effettuati a Roma, specialmente sul Palatino. Anche in Grecia, con la proclamazione dell'indipendenza e con la costituzione del nuovo stato ellenico, la ricerca archeologica ebbe una svolta sancita dalla costituzione che vietava qualsiasi esportazione di opere d'arte. Nel 1837 fu costituita ad Atene la Società Archeologica Greca, seguita a pochi anni di distanza dagli istituti archeologici stranieri che divennero i punti di riferimento per lo sviluppo della ricerca. Nel 1846 fu fondata la Scuola Francese di Atene, nel 1874 l'Istituto Archeologico Germanico e nel 1882 la Scuola Americana. Si andava intanto straordinariamente ampliando il campo delle conoscenze: si conosceva lo stile orientalizzante, ma ancora negli anni Cinquanta, al di là del VII sec. a.C. l'unica fonte di conoscenza erano i poemi omerici; nel 1862 A. Conze (1831-1914) pubblicò un gruppo di vasi di Milo di stile geometrico, che attribuì ad una fase più antica dell'Orientalizzante; successivamente ne definì le caratteristiche e nel tempo stesso ne rilevò le affinità col sistema decorativo dei materiali della prima età del Ferro rinvenuti nella necropoli di Hallstatt. Si apriva così la strada all'idea che questo stile fosse stato importato in Grecia dall'Europa centrale agli inizi del I millennio a.C., e che tale fatto fosse da mettere in rapporto con la tradizione della "invasione dorica". A partire dal 1871 le scoperte del Dipylon confermarono l'importanza e la cronologia dello stile geometrico in Grecia. Negli stessi anni la conoscenza della civiltà greca fu portata avanti ancora di mezzo millennio dalle scoperte di H. Schliemann (1822-1890); postosi sulle tracce dei luoghi omerici, nel 1871 egli iniziò gli scavi di Troia e successivamente quelli di Micene, Orchomenos e Tirinto, facendo conoscere la civiltà micenea. Il nuovo stile, diffuso in Grecia a partire dalla metà del II millennio, si concludeva alla fine di esso saldandosi con le prime manifestazioni dello stile geometrico; rimaneva tuttavia aperto il problema delle sue origini e della sua formazione. La risposta a tale quesito venne alla fine del secolo dagli scavi minoici di Creta: iniziati nel 1900 da F. Halbherr (1857-1930) a Festo e da sir Arthur Evans (1851-1941) a Cnosso, rivelarono una civiltà ancora più antica, che già agli inizi del II millennio era caratterizzata dalla costruzione di grandiosi palazzi, da ricche decorazioni pittoriche e da una produzione artistica col cui stile era facilmente collegabile quello miceneo. Nel giro di meno di un quarantennio venivano così messe in luce le più antiche civiltà che erano fiorite sul suolo ellenico, e che sviluppandosi per tutta l'età del Bronzo avevano creato il solido fondamento nel quale affondava le radici la cultura greca del I millennio. Negli stessi anni faceva passi da gigante la conoscenza della Grecia arcaica, classica ed ellenistica. Città, necropoli, santuari, a partire dal terzo venticinquennio del secolo vennero sistematicamente esplorati in una fervida attività di ricerca a cui parteciparono largamente, oltre ai Greci, le missioni di molti Paesi stranieri. Nel 1858 i Greci scavarono ad Atene l'Odeon di Erode Attico, e quattro anni dopo il teatro di Dioniso; fra il 1885 e il 1891 P. Kavvadias, con la collaborazione dell'architetto G. Kawerau, condusse sull'Acropoli scavi sistematici, con i quali arrivò ovunque alla roccia, mettendo in luce i resti degli edifici che vi si erano succeduti a partire dall'età micenea. Altri scavi la Società Archeologica Greca effettuò ad Epidauro nel 1881, ad Eleusi fra il 1882 e il 1890, ad Oropos fra il 1884 e il 1887. Gli Austriaci, i Tedeschi e i Francesi prendevano nel frattempo le iniziative più rilevanti. Nel 1873 il Conze condusse per conto dell'Austria la prima campagna di scavi a Samotracia, dove mise in luce il santuario dei Cabiri, di età ellenistica; nel 1875 i Tedeschi, sotto la direzione di E. Curtius, iniziarono lo scavo del santuario di Zeus ad Olimpia. I Francesi si orientarono invece verso i santuari di Apollo: nel 1877 Th. Homolle iniziò gli scavi di Delo; nel 1880 B. Hassoulier condusse i primi scavi a Delfi, proseguiti nel 1891 da Homolle; fra il 1885 e il 1886 M. Holleaux esplorò il santuario di Apollo Ptoo, presso il Lago Copaide, in Beozia. Nel 1884 gli Italiani, ad opera di Halbherr, iniziavano la esplorazione archeologica di Creta, conducendo scavi nell'antro Ideo, a Gortina, a Lebena, ad Axos. Nel 1892 C. Waldstein, per conto della Scuola Americana, iniziò lo scavo dell'Heraion di Argo. Un fondamentale contributo alla conoscenza del mondo classico venne negli stessi anni da ricerche e scavi condotti in Asia Minore. Qui il disinteresse del governo turco permise ancora per parecchi anni che si continuasse il saccheggio delle opere d'arte, anche se i metodi di scavo e di recupero erano ormai profondamente cambiati. Il British Museum beneficiò di questa situazione arricchendosi delle columnae caelatae e degli splendidi elementi architettonici dell'Artemision di Efeso, recuperati con uno scavo condotto dall'architetto J.T. Wood fra il 1869 e il 1874. L'esplorazione di Efeso fu ripresa nel 1896 dagli Austriaci, sotto la direzione di O. Benndorf, che concentrò le sue ricerche nell'area della città ellenistico-romana. Nel frattempo si era avviata l'esplorazione di Pergamo, iniziata nel 1878 dal Conze che da Vienna era passato ai Musei di Berlino. Lo scavo, condotto con la collaborazione dell'architetto C. Humann, ebbe come primo risultato la scoperta del grande altare che fu integralmente trasportato e rimontato nei Musei di Berlino; la continuazione delle ricerche fece conoscere una grande città ellenistica costruita a terrazze con impianto scenografico. Altre città venivano esplorate negli stessi anni: i Tedeschi nel 1889 esplorarono la piccola città arcaica di Neandria, nella Troade; nella Ionia, iniziarono gli scavi a Magnesia al Meandro nel 1890 e a Priene nel 1895, avviando lo studio di altre due città di età ellenistica; nel 1899, ad opera di Th. Wiegand, cominciarono l'esplorazione di Mileto, centro della vita ionica in età arcaica e importante città in età ellenistica e romana. Fra il 1880 e il 1883 i Francesi scavarono la necropoli di Myrina, nota per le sue terrecotte ellenistiche, e gli Austriaci, ad opera del Benndorf, esplorarono parte della Caria e la Licia, da dove portarono al Kunsthistorisches Museum di Vienna nel 1882 i rilievi dell'heroon di Giölbashi-Trysa. Il patrimonio di conoscenze accumulato nella prima metà del secolo venne così enormemente accresciuto. Gli scavi di Creta e le scoperte di Schliemann avevano rivelato la civiltà minoica e micenea, mentre nuovi materiali dalla necropoli del Dipylon e da altre località andavano precisando cronologia e caratteri dello stile geometrico. Punti saldi di riferimento erano stati acquisiti per l'arte arcaica con la colmata dei Persiani e per l'arte ellenistica con l'altare di Pergamo. Il recupero di un gran numero di originali dava nuove basi all'indagine stilistica: ad Olimpia venivano rinvenuti i frontoni del tempio di Zeus, la Nike di Peonio, l'Hermes di Prassitele; la conoscenza di Skopas si era arricchita delle lastre del Mausoleo (1867), della base di colonna dell'Artemision di Efeso (1874), dei frontoni di Tegea (1880); il santuario di Epidauro faceva conoscere le sculture eseguite da Timoteo per il tempio di Asclepio. Una enorme quantità di materiali veniva inoltre dallo scavo dei santuari, delle città, delle necropoli; oltre alle sculture, venivano recuperati ogni giorno bronzi, ceramiche, pitture, iscrizioni e oggetti di ogni genere, per cui si imponeva un lavoro organico di classificazione e di pubblicazione. Il precedente era costituito dai lessici degli antiquari del XVIII secolo, ma ormai il progresso degli studi filologici forniva dal punto di vista del metodo altri modelli, come i corpora delle iscrizioni greche (1825-59) e latine (1863-91) curati da A. Boeck e da Th. Mommsen. In questo lavoro ebbe parte importante l'Istituto di Corrispondenza Archeologica, a cui si deve l'organizzazione dei primi corpora: nel 1840 il Gerhard iniziò la pubblicazione degli Etruskische Spiegel; H. Brunn cominciò a pubblicare nel 1870 I rilievi delle urne etrusche e nel 1888 i Denkmäler griechischer und römischer Skulptur; nel 1890 il Conze Die attischen Grabreliefs e C. Robert Die antiken Sarkophagreliefs. Si era così avviato un genere di pubblicazione che, insieme ai cataloghi, avrebbe costituito un punto di riferimento per tutti i settori della ricerca. Per quel che riguarda la storia dell'arte, venne continuato il lavoro di identificazione delle opere d'arte avviato nella prima metà del secolo sulla scia del Winckelmann: nel 1850 O. Jahn identificò fra le copie romane i tipi delle Amazzoni ricordate da Plinio a proposito della gara di Efeso; C. Lenormant nel 1859 riconobbe una copia della Parthenos di Fidia in una piccola statua in marmo rinvenuta ad Atene. Fra le copie del Museo di Napoli K. Friedrichs identificò il gruppo dei Tirannicidi (1859) e il Doriforo di Policleto (1863). Al Brunn si deve la identificazione del Marsia di Mirone (1853), della Irene e Pluto di Cefisodoto (1867), dei gruppi del donario dedicato da Attalo II sull'Acropoli di Atene (1870). Del 1871 è l'identificazione del Diadumeno di Policleto ad opera dello Helbig. L'incalzare delle scoperte fece sentire presto il suo peso sugli studi di storia dell'arte; il cambiamento di prospettiva si può cogliere nell'opera del Brunn, che intorno alla metà del secolo concluse la fase winckelmaniana facendo convergere nella Geschichte der griechischen Künstler (I, Braunschweig 1853; II, Stuttgart 1859) i risultati del lavoro svolto sulla base delle fonti letterarie; alla fine del secolo, con la Griechische Kunstgeschichte (I-II, München 1893-97), propose invece un modello di storia dell'arte fondato essenzialmente sui monumenti e sulla loro "lettura" mediante l'"analisi della forma". La Formanalyse del Brunn era un procedimento di lontana origine winckelmaniana, utilizzato per individuare i caratteri peculiari dello stile di un artista, di un indirizzo o di una scuola; puntava essenzialmente alla personalità degli artisti e per questo è stato collegato col movimento romantico. L'indagine archeologica nel suo complesso rimase invece legata alla cultura positivistica e in questo senso elaborò due indirizzi di ricerca impliciti nella storia dell'arte del Winckelmann. Il lavoro di identificazione delle opere d'arte fu continuato con i criteri della nuova filologia tedesca, i cui metodi rispondevano ai principi del positivismo. Su questa linea A. Furtwängler (1853-1907) tentò una sistematizzazione del metodo nella sua applicazione all'arte classica, riprendendo una teoria del Visconti secondo il quale alle opere più copiate dovevano corrispondere quelle più menzionate dalle fonti; egli stabilì così un parallelismo fra gli elenchi pliniani e il patrimonio delle copie romane ipotizzando che alla fine dovessero coincidere. Nei Meisterwerke der griechischen Plastik, pubblicati nel 1893, il carattere positivistico è accentuato dall'applicazione del metodo morelliano del "motivo firma", che Furtwängler utilizzò largamente per estendere le attribuzioni sulla sola base dell'analisi dei monumenti. L'opera del Furtwängler ebbe largo seguito negli studi sulla scultura greca e in molti casi portò a risultati validi, ma anche alle esagerazioni e agli arbitri dell'"attribuzionismo". L'altro indirizzo di ricerca, analogamente a quanto avveniva nel campo delle scienze sperimentali per altri aspetti delle attività umane, mirò alla identificazione delle leggi che regolano la formazione e lo sviluppo dell'arte. In questo caso oggetto della ricerca furono le arti dei popoli primitivi e, nel campo dell'archeologia classica, l'arte greca arcaica. Il maggior rappresentante di questo indirizzo fu G. Semper (1803-1879), il quale sostenne che lo stile dipende dalla tecnica, dal materiale e dalla destinazione dei manufatti; nell'opera Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten (I-II, Frankfurt 1860-63) egli distinse le arti sulla base dei materiali adoperati e ne studiò lo sviluppo mettendo in evidenza il processo di trasferimento delle tecniche da una materia all'altra. Le teorie del Semper ebbero larga diffusione e furono applicate dal Conze allo stile geometrico e da L.M. Collignon (1849-1917) alla scultura greca arcaica. Le leggi dello sviluppo della scultura greca arcaica furono anche ricercate dal danese J. Lange (che propose un meccanismo di trasferimento dell'immagine dalla scultura a tutto tondo alla rappresentazione sul piano) e specialmente da E. Loewy (1857-1938), il quale per spiegare il processo della rappresentazione si rivolse ai meccanismi di percezione dell'artista. Nell'opera Die Naturwiedergabe in der älteren griechischen Kunst (Rom 1900) egli sostenne infatti che la rappresentazione artistica presso i popoli primitivi, e nell'arte greca arcaica, non nasce dalla diretta imitazione della natura, ma da immagini mnemoniche, che sono quelle più semplici e caratteristiche, che vengono fissate dalla memoria e che coincidono di solito con la veduta principale. La teoria loewiana dell'immagine mnemonica è certamente sulla linea del più deciso positivismo, ma risente nel tempo stesso dei nuovi orientamenti che andavano maturando nell'ambiente viennese nel quale Loewy si era formato. La via teorica alla classificazione dei rapporti fra soggetto e opera d'arte, che egli aveva seguito, era stata infatti aperta prima dal formalismo di F.J. Herbart (1776-1841), attraverso il quale la filosofia postkantiana era arrivata a Vienna, e poi dagli sviluppi che ne aveva tratto il suo discepolo R. Zimmermann. A questi orientamenti di pensiero si collegava anche la teoria della "pura visibilità", elaborata da K. Fiedler (1841-1895) e largamente diffusa dallo scultore A. von Hildebrand (1847-1921). Si trattava di un movimento di opposizione alle tendenze del positivismo imperante, che trovava largo appoggio nelle correnti dell'arte contemporanea aperte alle forme dell'impressionismo e che si lasciava ormai alle spalle il gusto neoclassico sul quale si erano formate le teorie di Winckelmann. Da questi nuovi orientamenti nacque la "scoperta" dell'arte romana, che rimane legata al nome di F. Wickhoff (1853- 1909), storico dell'arte medievale e moderna. Pittore egli stesso, e abituato ad intendere le forme dell'arte illusionistica, ne riconobbe gli aspetti nella pittura del I sec. d.C. (che aveva già avuto una prima sistemazione nella classificazione del Mau) e quindi nella scultura contemporanea, particolarmente in quella di età flavia. Ne trovò i precedenti nella scultura etrusca del III sec. a.C. e credette di poter stabilire una distinzione fra l'arte illusionistica occidentale e l'arte greco-orientale naturalistica. Wickhoff rivendicò così all'arte romana, considerata dal Winckelmann in poi una fase di decadenza dell'arte greca, una sua autonomia ed una sua individualità. Ma i limiti del suo contributo erano impliciti nella sua stessa formazione critica: egli "vide" nell'arte romana soltanto quelle manifestazioni che rientravano nell'ambito dell'illusionismo; la sua comprensione di essa rimase pertanto limitata al primo e al secondo secolo dell'Impero; l'arte romana dal terzo secolo in poi rimase di fatto fuori dalla sua ricostruzione storica. In questa zona ancora inesplorata dell'arte romana si addentrò A. Riegl (1858-1905), un altro storico dell'arte della Scuola di Vienna: Wickhoff aveva esposto le sue idee nella Wiener Genesis pubblicata nel 1895; nel 1901 Riegl pubblicò Spätrömische Kunstindustrie in cui accettò le conclusioni del Wickhoff riguardo all'arte dei primi due secoli dell'Impero, ma gli contestò di avere usato una critica soggettiva, subordinata al suo gusto personale. Egli sostenne invece che ogni epoca ha un suo particolare modo di rappresentazione, espressione di una "volontà artistica", o Kunstwollen, peculiare del tempo in cui si manifesta; su questo presupposto estese l'indagine ai secoli del Tardo Impero, identificando e definendo i caratteri espressionistici dell'arte tardoromana.
L'archeologia classica nel XX secolo
Ad apertura del secolo due diversi metodi di indagine contribuirono a dilatare le prospettive di ricerca dell'archeologia classica, da un lato verso le sue origini, dall'altro verso la sua conclusione; gli scavi di Creta, con la scoperta della civiltà minoica, offrirono infatti la possibilità di risalire fino alle origini della civiltà greca, mentre nel campo della storia dell'arte la "scoperta" dell'arte romana permise di tracciare, in una coerente sequenza, lo sviluppo storico della fase finale della civiltà classica e dei suoi esiti nell'età tardoantica e medievale. La ricerca sul terreno e l'indagine storico-artistica si trovarono così a convergere, ognuna per la sua parte, nella ricostruzione storica della formazione e dello sviluppo della civiltà occidentale, svolgendo, l'una e l'altra, un ruolo rilevante nello sviluppo dell'archeologia classica del XX secolo. Per quel che riguarda la ricerca sul terreno, l'esplorazione sistematica dei grandi centri del mondo ellenico, avviata nell'ultimo trentennio del XIX secolo, fu continuata ed estesa ad opera di istituzioni altamente specializzate. L'esplorazione di Creta, che con gli scavi di Cnosso e di Festo aveva rivelato la civiltà minoica, fu continuata ed estesa ad altre località dell'isola, da Haghia Triada, a Tylissos, a Mallia e più recentemente a Zakros, Kydonia, Archanes. Parallelamente sul continente continuavano a Micene gli scavi iniziati da Schliemann, mentre altri cantieri si aprivano nei più importanti centri micenei, da Tirinto, a Pilo, a Tebe, ad Orchomenos, approfondendo la classificazione e la conoscenza dei materiali e individuando nella sua vastità e complessità la diffusione della civiltà micenea, la cui presenza si andava rivelando lungo le principali rotte del bacino del Mediterraneo. Gli evidenti caratteri minoici della cultura micenea posero fin dalle prime scoperte il problema del rapporto fra le due civiltà; nella monumentale edizione degli scavi di Cnosso (The Palace of Minos), pubblicata fra il 1921 e il 1935, A. Evans propose una soluzione cretocentrica del problema, supponendo che a partire dalla metà del II millennio i potentati cretesi si fossero insediati sul continente ellenico. Punto di forza della sua tesi era la presenza sul continente di documenti in lineare B, che, essendo una scrittura derivata dalla lineare A, conosciuta soltanto a Creta, secondo Evans attestava la diffusione della lingua dei Minoici sul continente. La decifrazione della lineare B, proposta da M. Ventris nel 1952, dimostrò invece che non si trattava della stessa lingua: la lineare B nascondeva una lingua greca arcaica alle cui esigenze i Micenei avevano adattato la scrittura cretese lineare A. L'identificazione del miceneo con un dialetto greco fece cadere anche l'idea che la civiltà micenea fosse una civiltà preellenica e spianò la strada ai fautori della tesi della continuità, fra le culture dell'età del Bronzo del bacino dell'Egeo e l'età dello stile protogeometrico e geometrico in Grecia, tenacemente sostenuta da studiosi come N.M.P. Nilsson (1874-1967) per la storia delle religioni o D. Levi (1898-1991) per le implicazioni archeologiche e storico-artistiche. Si sono andati pertanto collocando sotto nuova luce i secoli intermedi tra la fine del Miceneo e l'apparire dello stile geometrico, il cosiddetto Medioevo ellenico, che associato con la tradizione dell'invasione dorica era stato dai più considerato un momento di totale rottura col passato. L'attenzione degli archeologi classici, ancora chiusa fino ai primi decenni del secolo entro i limiti del quadro winckelmaniano dello sviluppo dell'arte greca, si è così estesa alla cosiddetta "età oscura della Grecia", recuperando all'interesse degli studi altri cinque secoli della formazione e dello sviluppo della civiltà greca. Il moltiplicarsi di esplorazioni, scavi e ricerche nelle più diverse località del mondo greco dava contemporaneamente modo di ampliare e precisare le conoscenze sull'età arcaica, classica ed ellenistica, approfondendo e arricchendo il quadro già delineato nella seconda metà del XIX secolo. Lo scavo dei grandi santuari, come Olimpia, Delfi, Delo, Samotracia, fu sistematicamente continuato ed esteso ad altre località: agli inizi del secolo i Danesi scavarono il santuario di Atena Lindia a Rodi, gli Inglesi quello di Artemide Orthia a Sparta; i Tedeschi il Didymaion di Mileto e dal 1910 l'Heraion di Samo; i Greci il santuario di Epidauro. Degli anni Trenta sono gli scavi inglesi nel santuario di Hera Limenia a Perachora e della metà del secolo quelli americani nel santuario di Posidone sull'Istmo. Nuovi importanti progressi sono stati inoltre conseguiti attraverso l'esplorazione delle grandi città della Grecia e dell'Asia Minore: gli Americani scavano sistematicamente Corinto dal 1896 e l'Agorà di Atene dal 1930; con gli scavi di Olinto (1928-38) hanno fatto conoscere un esempio di città a pianta regolare di V e IV sec. a.C. I Tedeschi, oltre a Pergamo e Priene, hanno condotto in Asia Minore gli scavi di Mileto e in Grecia la sistematica esplorazione del Ceramico di Atene; i Francesi hanno esplorato Argo e Taso in Grecia, Xanthos in Asia Minore; gli Italiani Lemno e le isole del Dodecaneso, Priniàs e Gortina a Creta e più recentemente Hierapolis e Iasos in Asia Minore; gli Svizzeri Eretria. I Greci, sempre più capillarmente presenti nel territorio, hanno scavato sistematicamente Thermos, Capo Sunio, Eleusi e più recentemente Corfù e Verghina, nota per la scoperta della tomba attribuita a Filippo II. Intensa, specialmente negli ultimi anni, l'attività di ricerca a Cipro. Grandi progressi ha fatto anche la conoscenza della grecità di Occidente, nei primi tre decenni del secolo per la straordinaria opera di P. Orsi (1859-1935) che ha esplorato le colonie greche della Sicilia e della Calabria, e dopo la seconda guerra mondiale per la intensificata attività di soprintendenze e istituti universitari che hanno scavato sistematicamente i più importanti centri della Sicilia e della Magna Grecia. Gli scavi di Siracusa, Megara Hyblaea, Leontini, Naxos, Camarina, Eloro, Gela, Agrigento, Eraclea Minoa, Selinunte, Mozia, Segesta, Solunto, Imera, Tindari, Lipari hanno dato un quadro sempre più largo e dettagliato della Sicilia di età greca, mentre le ricerche in città come Catania, Tauromenio, Centuripe e la scoperta di lussuose ville come quelle di Piazza Armerina, di Patti e di Eloro cominciano a delineare una più chiara fisionomia della Sicilia romana. Uguale intensità di ricerca si è avuta nelle regioni dell'Italia meridionale, dove contributi fondamentali sono venuti dagli scavi di Locri, Crotone, Eraclea, Metaponto, Taranto, Medma, Velia, Paestum, Cuma, Ischia; di particolare rilievo la scoperta, negli anni Trenta, dell'Heraion del Sele ad opera di P. Zancani-Montuoro (1901-1987) e di U. Zanotti Bianco (1889-1963). Sia in Sicilia che in Magna Grecia l'esplorazione di un numero sempre crescente di centri indigeni ha sollecitato l'approfondimento dei problemi relativi ai rapporti fra Greci e popolazioni locali. A Pompei gli scavi ripresi da Fiorelli dopo l'unità d'Italia vengono ancora sistematicamente continuati, e così quelli di Ercolano; l'esplorazione di Ostia, iniziata ai primi del Novecento, fu intensificata fra il 1938 e il 1942, mettendo in luce un altro esempio di città eccezionalmente conservata. A Roma, gli scavi del Foro Romano e del Palatino, avviati da G. Boni agli inizi del secolo, furono continuati da A. Bartoli a partire dal 1926 e successivamente da P. Romanelli e A.G. Carettoni; negli anni Venti e Trenta furono scavati e sistemati i Fori Imperiali con interventi, successivamente molto discussi, che procedevano sulla via aperta nel 1911 dalla copertura del declivio del Campidoglio con l'arrogante massa lapidea dell'altare del Sacconi. Nel 1938 fu definitivamente recuperata, tra le fondazioni di Palazzo Fiano, l'Ara Pacis. Scavi e scoperte nel Lazio, in Etruria e nell'Italia settentrionale ampliavano nel frattempo la conoscenza del mondo etrusco e romano: la scoperta della villa di Tiberio a Sperlonga, gli scavi di Preneste, Lavinio, Ardea, Satricum, l'esplorazione delle città etrusche, gli scavi di Cosa, Luni, Albintimilium, Aquileia sono altrettanti punti fermi nel progresso della ricerca. Fuori d'Italia venivano moltiplicate le ricerche sul limes e veniva ampliata e approfondita l'esplorazione delle città romane, dalla Germania alla Gallia, alla Spagna, dall'Africa settentrionale al Vicino Oriente; la civiltà romana, rappresentata nell'intero arco del suo sviluppo dalla sequenza stratigrafica e cronologica di Roma, veniva approfondita e precisata nelle sue fasi dalla conoscenza di città di sviluppo delimitabile nel tempo come Timgad o Tarragona. Una attiva organizzazione degli studi fenici e punici, particolarmente ad opera di S. Moscati, dava anche l'avvio ad una sistematica esplorazione delle città puniche, dall'Africa settentrionale alla Sicilia, alla Sardegna, alla Spagna. A questa intensa attività di ricerca nell'Europa occidentale e nel bacino del Mediterraneo ha fatto riscontro, nei Paesi dell'Europa orientale e all'interno dell'Unione Sovietica, un'organizzazione della ricerca archeologica fortemente centralizzata e ispirata ai principi del materialismo storico. Nata in URSS nel 1919, subito dopo la rivoluzione socialista, tale organizzazione trovò forma definitiva nel 1937 nell'Istituto di Storia della Cultura Materiale, il cui modello fu esportato nei Paesi satelliti. La sua attività, programmata in piani quinquennali, ha interessato soprattutto la ricerca preistorica e l'età medievale, ma ha anche toccato l'archeologia classica con l'esplorazione delle città greche della Crimea e delle coste settentrionali del Mar Nero, come Olbia, Cherson, Panticapeo e i centri del Bosforo Cimmerio. Per quel che riguarda l'indagine storico-artistica, già due anni prima che Wickhoff pubblicasse la Wiener Genesis, Riegl aveva sostenuto, in un'opera intitolata Stilfragen, l'idea della continuità dello sviluppo dell'arte romana fino all'età medievale; la sua indagine era tuttavia limitata allo studio della decorazione a viticci bizantina e islamica, che faceva derivare da quella classica attraverso una linea di sviluppo tracciata con metodo sostanzialmente tipologico. Il salto di qualità fra le Stilfragen e la Spätrömische Kunstindustrie è costituito dall'adozione, da parte di Riegl, del metodo di indagine proposto dal Wickhoff nella Wiener Genesis, dove gli esiti formali del manufatto artistico sono definiti attraverso l'individuazione dei mezzi tecnici adoperati per realizzarli. Fra questi, certamente preponderante nel rilievo, il rapporto tra figure e fondo, la cui analisi, che offrì al Wickhoff l'occasione per definire le forme dell'illusionismo, fu poi utilizzata da Riegl per individuare le forme dell'espressionismo tardoantico. Il nuovo approccio al manufatto artistico proposto dal Wickhoff, e la teoria del Kunstwollen riegliano, sono le due novità con cui si aprì il nuovo secolo per la storia dell'arte antica, che, arricchendosi dell'acquisizione delle nuove categorie descrittive e concettuali, continuò ad essere per l'archeologia classica campo privilegiato di indagine. Dal punto di vista dei contenuti la ricerca si allargò con nuovi interessi al mondo romano. Nel 1900 la conoscenza della Wiener Genesis fu largamente diffusa da E. Strong che ne diede la traduzione inglese col titolo Roman Art e negli anni successivi continuò a pubblicare una serie di scritti sull'arte romana sostanzialmente ispirati all'opera del Wickhoff; solo negli anni Venti, tuttavia, a distanza di una generazione, il problema della formazione e dello sviluppo dell'arte romana venne ripreso e ridiscusso con prospettive nuove. Nel 1925, in due studi sul rilievo romano, J. Sieveking e C. Weickert ripresero l'idea del Wickhoff che l'elemento innovativo nell'arte romana è costituito dal rendimento della profondità spaziale. Il Weickert ne riconobbe le caratteristiche nello stile lineare del rilievo "dei gladiatori" della Gliptoteca di Monaco e ne rintracciò i precedenti nella tradizione artistica italica, stabilendo una continuità fra arte italica e arte romana in contrapposizione all'arte greca. Contrariamente a quanto sostenuto dal Wickhoff, e poi anche dal Sieveking, l'arte etrusca rimaneva fuori dal sistema proposto dal Weickert, sicché non si poteva più parlare, come aveva fatto il Wickhoff, di un'arte occidentale contrapposta all'arte naturalistica greco-orientale; si veniva bensì a stabilire un rapporto di affinità fra arte italica e arte romana parallelo a quello fra popoli italici e popolo romano, sottintendendo il principio che ad ogni nazione corrisponde un'arte autonoma. Da una ricostruzione di tipo evoluzionistico, come quella del Wickhoff, che inseriva l'arte greca in uno sviluppo complessivo all'interno del quale l'illusionismo romano rappresentava lo stadio più avanzato nel rendimento dello spazio, si passava ad un approccio storico-culturale in cui l'attenzione era rivolta alla formazione e allo sviluppo delle singole arti nazionali. In questa prospettiva rientrano alcune ricerche di C. Anti sull'arte italica (1930), nonché gli studi sull'arte siceliota di P. Marconi, del 1931, e di B. Pace (Arte e civiltà della Sicilia antica, Milano 1935) che mirarono a mettere in evidenza gli elementi divergenti dall'arte greca facendoli risalire alle popolazioni indigene, etnicamente affini ai popoli italici, e attribuendo a tali elementi, definiti "anticlassici", valore di scelta cosciente e autonoma. L'orientamento nazionalistico, a cui approda la storia dell'arte classica negli anni Venti, non è un fatto nuovo nella ricerca archeologica. Patrimonio culturale del movimento romantico del XIX secolo, fin dagli inizi del Novecento aveva trovato spazio negli studi sull'arte tardoantica di J. Strzygowsky (Orient oder Rom, Leipzig 1901) e soprattutto nella ricerca preistorica, quando all'interpretazione evoluzionistica dei dati archeologici si sostituì il concetto di "cultura" e il suo riferimento ai gruppi etnici. In Germania G. Kossinna, sulla base di tale metodo da lui teorizzato, sostenne il primato del popolo germanico e attribuì la sua grandezza alla mancanza di influenze fisiche e culturali da parte dei popoli vicini (Die Herkunft der Germanen. Zur Methode der Siedlungsarchäologie, Leipzig 1911). L'interpretazione etnica e razziale del concetto di "cultura", teorizzata da Kossinna, fornì anche dopo la sua morte (1931) una base pseudoscientifica all'ideologia razziale del nazismo, che dedicò particolare attenzione all'organizzazione della ricerca preistorica finalizzata alle indagini sulle origini e la diffusione dei popoli germanici con l'intento di fornire un supporto culturale alla pretesa della superiorità germanica e alla espansione territoriale del Terzo Reich. Analoghi sviluppi ebbe, negli stessi anni, la teoria del Kunstwollen: enunciata nel quadro di una concezione evoluzionistica che vedeva nell'arte antica uno sviluppo unitario fondato sul passaggio dal fondo tattile (arte greca) al fondo ottico (arte tardoromana), aveva avuto per Riegl la funzione di strumento metodologico di contrapposizione a Semper e alle teorie del Positivismo; collegata col concetto di "cultura", portò all'identificazione del Kunstwollen con la "volontà artistica" del gruppo etnico che la esprime. Teorizzatore di queste vedute fu G. von Kaschnitz-Weinberg che in uno studio pubblicato nel 1926 (Studien zur etruskischen und frührömischen Porträtkunst) riconobbe nel ritratto repubblicano due opposte disposizioni nei confronti della forma artistica; egli sostenne che tali tendenze erano da riportare all'originario patrimonio culturale dei popoli italici e ne indicò le prime manifestazioni nei manufatti delle popolazioni protostoriche del Lazio e dell'Italia centrale poi confluite nella formazione del popolo romano (Bemerkungen zur Struktur der altitalischen Plastik, 1933). Gli elementi caratterizzanti di tali tendenze vennero ricercati dal Kaschnitz-Weinberg nella "struttura" dei manufatti artistici, in cui egli ritenne di potere individuare i "principi dell'organizzazione interna della forma", costanti nello sviluppo storico delle manifestazioni artistiche dei diversi popoli. L'approccio metodologico di Kaschnitz- Weinberg si presentava come uno strumento di ricerca di validità universale e pertanto venne esteso, specialmente in Germania, agli altri settori della storia dell'arte antica. Nel primo ventennio del secolo gli studi sull'arte greca erano rimasti estranei agli orientamenti che avevano rinnovato gli studi sull'arte romana e sostanzialmente ancorati ai metodi del Positivismo e alla tradizione filologica. Le ricerche sulle leggi che regolano lo sviluppo dell'arte arcaica furono continuate da E. Loewy; in particolare il suo studio sulla "migrazione dei tipi" (1909, 1911) pose su base rigorosamente tipologica il problema delle origini dell'arte greca, attribuendo a Creta e all'influenza dell'Egitto il ruolo principale nella sua formazione. Sullo stesso piano metodologico F. Poulsen rivendicò il primato all'Oriente e al mondo ionico (Der Orient und die frühgriechische Kunst, 1912), dando così il via alle polemiche fra "panionisti" e "pancretisti". Sulle orme del Loewy, che dal 1909 al 1915 tenne a Roma la cattedra di Archeologia classica, A. Della Seta studiò La genesi dello scorcio nell'arte greca (1907) e successivamente (1930) Il nudo nell'arte, opere l'una e l'altra di estrazione strettamente positivistica. Lo strumento del "motivo firma", utilizzato dal Furtwängler per il riconoscimento e l'attribuzione delle opere d'arte nel campo della scultura, fu applicato da J.D. Beazley ai vasi attici figurati, che classificò per officine e per maestri mettendo ordine in una immensa massa di materiale anonimo e altrimenti incontrollabile; gli studi del Beazley, dai primi articoli pubblicati nel 1914 alle opere di sintesi del 1942 (Attic Redfigure Vase Painters) e del 1956 (Attic Black-figure Vase Painters), seguite da numerosi supplementi, costituiscono uno strumento insostituibile nel campo degli studi di archeologia e storia dell'arte greca. Analogo lavoro è stato fatto sui vasi a figure rosse della Sicilia e della Magna Grecia ad opera di A.D. Trendall e sulle gemme, a partire da una fondamentale opera (Die antike Gemmen) pubblicata da Furtwängler nel 1900. Gli studi sull'arte ellenistica trassero invece vantaggio dalle ricerche sul rilievo romano, da cui furono sollecitati anche dal punto di vista metodologico. Alle affermazioni del Wickhoff, di Sieveking, del Weickert, che attribuivano all'arte romana la scoperta del rendimento della profondità spaziale, si contrapposero infatti alcuni studiosi che ne rivendicavano il merito all'arte ellenistica. La tesi, già sostenuta da A. Schober nel 1923 a proposito dei quadri ellenistici a rilievo, i cosiddetti Reliefbildern, fu ripresa da F. Koepp nel 1926 e dallo stesso Schober nel 1932. In polemica con le teorie del Weickert, Schober sostenne che il rendimento della profondità spaziale era presente nell'arte ellenistica fin dal II sec. a.C., non solo nelle forme illusionistiche più tradizionali identificate dal Wickhoff, ma anche nelle forme del rilievo piatto e lineare segnalato dal Weickert. Per la formazione di questo stile Schober faceva riferimento ai rilievi dell'Ekataion di Lagina, di cui definiva i caratteri stilistici attraverso l'analisi del rapporto compositivo tra le figure e fra queste ultime e il fondo, con un metodo di indagine che si rifaceva sostanzialmente alle categorie descrittive introdotte dal Wickhoff. Le "ricerche di struttura" vennero invece applicate, specialmente ad opera di studiosi tedeschi, alla più antica scultura greca. Nel 1929 V. Müller tentò di superare il metodo tipologico di Loewy e di Poulsen classificando la più antica plastica fittile sulla base di elementi strutturali comuni identificati nelle forme contrapposte dello Spreizstil e del Blockstil; in quest'ultimo, di origine orientale, il Müller riconobbe il "principio tettonico" che sarebbe stato alla base della struttura dell'arte greca. Più vicino all'impianto teorico di Kaschnitz-Weinberg, F. Matz cercò all'interno dell'arte greca il principio strutturale che sta alla base del suo sviluppo e lo identificò, per il periodo delle origini, nella produzione artistica delle popolazioni doriche del Peloponneso; propose pertanto uno schema di sviluppo che dall'arte di stile geometrico e dedalico passava alle forme dell'arte classica ed ellenistica attraverso il filo conduttore del "principio tettonico" trasmesso attraverso la continuità del gruppo etnico. La tesi di Matz, che di fatto faceva iniziare l'arte greca con la cosiddetta "invasione dorica", separava il processo di formazione dell'arte greca dal ceppo della tradizione minoico-micenea, postulando una decisa frattura fra le due culture. Dalle medesime posizioni teoriche E. Langlotz, pubblicando un bronzetto cretese di VIII sec. a.C. (Eine eteokretische Sphinx, 1937), ne mise in evidenza i caratteri iconografici e formali riferibili alla tradizione minoica e ne dedusse l'attribuzione ad un artigiano eteocretese, erede di una sensibilità atettonica estranea all'arte greca, trasmessa attraverso la continuità del sangue minoico. "Forse l'arte del tutto anellenica del cretese Domenico Teotokopuli, con i suoi volti estatici e con le sue snelle figure, è l'ultima luce del sangue eteocretese", scrive Langlotz (p. 62), sostituendo all'indagine storica una sorta di determinismo che porta alle estreme conseguenze l'interpretazione superindividuale del Kunstwollen riegliano. A questa linea di indagine, prevalentemente seguita dalla cultura tedesca, si contrappose in Italia un indirizzo di ricerca ispirato dal pensiero crociano, orientato verso l'interpretazione del Kunstwollen in senso individuale e attento al contributo e al ruolo della personalità degli artisti. Nel campo della storia dell'arte antica il rappresentante più autorevole di questo orientamento fu R. Bianchi Bandinelli, che a partire dalla metà degli anni Trenta fece sentire la sua voce soprattutto attraverso la rivista La Critica d'Arte; i suoi articoli, in polemica con le teorie di Kaschnitz-Weinberg, furono ripubblicati nel 1943 insieme ad altri scritti in un volume il cui titolo, Storicità dell'arte classica, si richiamava all'orientamento essenzialmente storicistico dell'idealismo crociano. Non appare del tutto casuale il fatto che gli scritti raccolti in Storicità dell'arte classica riguardano in massima parte la storia dell'arte greca, il cui svolgimento è stato tradizionalmente ricostruito sulla base delle personalità degli artisti emergenti.
L'impatto con la tecnologia - Negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale ebbe un particolare sviluppo nella ricerca archeologica l'utilizzazione di metodi e tecnologie avanzate messi a punto in altri settori della ricerca. Già nel XIX secolo l'adozione del metodo stratigrafico, desunto dalle scienze geologiche, aveva profondamente influito sugli sviluppi della disciplina, affinando le procedure dello scavo archeologico e facendone un metodo scientifico. Per quel che riguarda i relitti sottomarini, già agli inizi del secolo l'utilizzazione della tuta per palombari aveva segnato la nascita dell'archeologia subacquea, ma solo nel 1942, con l'invenzione dell'autorespiratore ad aria, tecnici e archeologi si poterono muovere in acqua più liberamente e fu possibile trasferire alle ricerche sottomarine i metodi dello scavo di terraferma. Agli inizi del XX secolo risale anche la prima utilizzazione della fotografia aerea a scopi archeologici: le prime riprese furono effettuate utilizzando un pallone aerostatico, ma fu dopo la prima guerra mondiale che l'uso diventò sistematico per il deciso sviluppo del metodo della fotointerpretazione determinato dalla esigenza di conoscere il territorio nemico e i suoi apprestamenti difensivi. Nel periodo fra le due guerre la fotografia aerea continuò ad essere utilizzata con notevoli risultati, ma solo dopo la seconda guerra mondiale il perfezionamento dei sistemi di ripresa e di interpretazione e la disponibilità di un'enorme quantità di fotografie, diedero una spinta decisiva alla sua applicazione estensiva e all'elaborazione di una specifica metodologia archeologica. Essa fu adoperata sia come documento topografico, per costruire rilievi planoaltimetrici con l'applicazione dell'aerofotogrammetria, sia come mezzo di ricerca, per rilevare la situazione dei resti archeologici sepolti fino alla profondità di un paio di metri o sommersi in fondali fino ad una ventina di metri. In quest'ultima funzione la fotografia aerea fu presto integrata con l'uso di altre tecniche messe a punto per ricerche di carattere geologico e utilizzate per la prospezione del terreno a fini archeologici: le sonde, di solito usate per ricerche petrolifere, furono utilizzate nella piana di Sibari per il prelevamento di campioni stratigrafici (carotaggio); e sempre servendosi delle sonde, la Fondazione Lerici, con l'introduzione di un periscopio con apparecchio fotografico nelle camere funerarie, esplorò a Tarquinia, fra il 1958 e il 1962, 4600 tombe. È anche di questi anni l'adozione di altre raffinate tecniche di prospezione mutuate dalla ricerca geofisica per l'identificazione di resti archeologici nel sottosuolo. Nel campo della datazione, nuove sofisticate tecniche furono messe a punto a partire dagli anni Quaranta con la misurazione del decadimento radioattivo. Le prime datazioni col metodo del radiocarbonio (o carbonio-14) vennero pubblicate nel 1949; più recente è l'utilizzazione delle datazioni con il potassio-argon, con l'uranio-piombo, con le tracce di fissione, che hanno assunto grandissima rilevanza specialmente nell'ambito della ricerca preistorica. Particolare sviluppo ha avuto, negli ultimi anni, anche lo studio dei resti vegetali, faunistici e umani, per cui sono state utilizzate le tecniche più avanzate delle scienze naturali, biologiche e mediche, dalle analisi polliniche a quelle osteologiche, dai metodi della biochimica a quelli della genetica. Per quel che riguarda i resti umani, l'analisi delle ossa ha permesso di identificare caratteri e malattie dei singoli individui, mentre la possibilità di estrarre dai resti anche piccole dosi di DNA ha dato l'avvio a sofisticate indagini sulle relazioni di parentela. Lo scavo di città e necropoli si è così aperto ad una più vasta gamma di indagini, che hanno dilatato la prospettiva storica e umanistica arricchendola di istanze tipiche della ricerca antropologica. A partire dagli anni Sessanta si è imposto in maniera sempre più decisa l'uso dell'informatica. In un primo momento la necessità di ricorrere per l'elaborazione dei dati alle macchine dei grandi centri ha limitato notevolmente le possibilità di utilizzazione delle nuove tecnologie, ma nel decennio successivo l'invenzione dei microprocessori e la loro diffusione hanno dato una spinta decisiva all'ingresso dei calcolatori nell'indagine archeologica. La maggiore utilizzazione si è avuta nell'ambito delle scienze preistoriche, ma anche gli archeologi classici si sono largamente serviti di questo strumento per le loro ricerche. Negli ultimi anni gli studiosi di topografia antica hanno rivolto la loro attenzione a settori come la cartografia computerizzata o i sistemi informativi territoriali; analisi matematico-statistiche sono state condotte su varie classi di materiali e in particolare sulla ceramica e sugli specchi etruschi; ma soprattutto i calcolatori sono stati adoperati per la gestione dello scavo e per la creazione di banche- dati. Quest'ultima scelta è stata particolarmente dettata dall'enorme crescita della documentazione archeologica che non è più controllabile con i mezzi della schedatura tradizionale. Sono state così avviate una serie di iniziative finalizzate alla ricerca scientifica, come la computerizzazione dell'archivio Beazley di Oxford, del Corpus Vasorum Antiquorum a Pisa, o dei mosaici di Delo presso il Centre National de la Recherche Scientifique francese, mentre altre iniziative, come quelle dell'Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione, hanno mirato in prima istanza alla tutela del patrimonio storico e artistico del Paese. L'impatto con le nuove tecnologie e le inevitabili interrelazioni che si sono andate stabilendo con le discipline di provenienza hanno certamente contribuito ad ampliare le prospettive della ricerca archeologica, sia per quel che riguarda i contenuti sia dal punto di vista della riflessione sui principi e sui metodi. Le possibilità offerte dalle riprese aeree e dalle tecnologie informatiche hanno orientato i topografi ad occuparsi sempre più largamente del territorio e a studiarne su larga scala gli insediamenti umani dal punto di vista della urbanizzazione, delle attività agricole, delle vie di comunicazione, in un quadro complessivo della presenza antropica. Nello scavo degli abitati diventa sempre più sistematico il recupero dei resti animali e vegetali, a cui si attingono notizie sulla flora, sulla fauna, sull'alimentazione, mentre nell'esplorazione delle necropoli il recupero e l'analisi dei resti ossei si accompagna ormai sistematicamente con quello delle strutture delle tombe e dei corredi per completare il quadro degli usi funerari. Tali esigenze, penetrate nell'ambito dell'archeologia classica con tempi più lenti, si sono fatte sentire con maggiore urgenza e sistematicità nel campo delle discipline preistoriche, strettamente legate a quelle etnologiche e antropologiche e quindi più aperte ai problemi economici e sociali. Naturalmente le situazioni si sono presentate con aspetti diversi nei diversi Paesi in cui si sono sviluppate e ciò in relazione sia alle tradizioni culturali e alle situazioni politiche dei Paesi stessi, sia in rapporto all'oggetto prevalente della ricerca.
Gli ultimi decenni - Con la conclusione della seconda guerra mondiale i maggiori cambiamenti si ebbero nei paesi dell'Europa occidentale, dove la sconfitta dei regimi totalitari di destra ebbe come conseguenza un radicale cambiamento del quadro politico. Nei paesi dell'Europa orientale, entrati nell'area del controllo sovietico, l'organizzazione statale degli Istituti per la Storia della Cultura Materiale impose una linea di ricerca improntata ad un marxismo dogmatico, chiuso ai rapporti e alla discussione con l'Occidente. Negli Stati Uniti il prevalente interesse per lo studio delle popolazioni nordamericane orientò la ricerca archeologica verso le discipline etnologiche e antropologiche. I fenomeni più appariscenti emersi da questa situazione furono i processi di interpretazione e di trasformazione del marxismo (particolarmente attivi nell'Europa occidentale) e, in America, i tentativi di "scientificizzare" la ricerca archeologica prendendo a prestito formule e procedure sia dalle "scienze esatte", sia dalle discipline etnoantropologiche. In Germania i principi enunciati negli anni Trenta nell'ambito delle "ricerche di struttura" furono riaffermati fino al 1964 da F. Matz, e ancora nel 1966 da Kaschnitz-Weinberg in discussione con Bianchi Bandinelli. Nell'analisi e interpretazione della struttura si sono tuttavia definiti in seguito orientamenti diversi, come quello proposto nel 1972 da A. Borbein, che tende ad individuare non più costanti fisse in sistemi deterministici, ma elementi interni ad opere d'arte in sistemi che si generano nei momenti creativi. E. Langlotz, a proposito dell'arte greca nordorientale (1975), propone una lettura della figura umana come rappresentazione di un ideale di bellezza determinato nel tempo e nello spazio e quindi punto di riferimento per la definizione della forma artistica. Una fisionomia diversa presentano gli studi di storia dell'arte antica in Italia, il cui principale rappresentante continuò ad essere, negli anni del dopoguerra, Bianchi Bandinelli. La sua iscrizione al Partito Comunista Italiano, del 1944, segna il suo cambiamento di indirizzo e il distacco dalle teorie crociane. Le motivazioni vengono esplicitate nella prefazione alla seconda edizione di Storicità dell'arte classica (1948-49), in cui manifesta l'esigenza di uno "storicismo integrale" che permetta di "immergere la singola opera d'arte nel suo ambiente umano, non solo intellettuale, ma anche sociale ed economico". Il nuovo orientamento trovò un ottimale terreno di indagine nella storia dell'arte romana, a cui sono fondamentalmente dedicati gli scritti raccolti nel volume Archeologia e cultura (1961), che segna il passaggio al pensiero marxista. Egli vi riprende, in chiave economica e sociale, il tema del bipolarismo nell'arte romana, con particolare riferimento alle tesi di G. Rodenwaldt: quest'ultimo aveva segnalato, nello sviluppo dell'arte romana, due correnti, "ufficiale" e "popolare", e in quest'ultima aveva individuato i precedenti formali dell'arte tardoantica. Arte "ufficiale" e arte "popolare" nella ricostruzione del Bianchi Bandinelli diventano espressione di due classi sociali; l'affermarsi dell'arte tardoantica conseguenza dell'arrivo al potere delle classi subalterne. L'indagine di Bianchi Bandinelli, pur nell'interesse dichiarato per le articolazioni e le trasformazioni della società antica, si mantenne nell'ambito della storia dell'arte, in quanto realizzata attraverso l'analisi del linguaggio figurativo. Vi ebbero un ruolo essenziale l'esperienza crociana e l'insegnamento della Scuola di Vienna, l'una per la profonda esigenza storica a cui rimase improntata la sua ricerca, l'altro per il tipo di approccio al linguaggio figurativo condotto sulla linea suggerita dal Wickhoff agli inizi del secolo. Negli anni Sessanta, mentre diventava sempre più frequente nella ricerca archeologica l'applicazione di nuove tecniche e metodologie "scientifiche", si sviluppò fra gli archeologi dell'America Settentrionale un movimento di riforma e di contestazione che prese il nome di New Archaeology. Manifesto del movimento si può considerare un articolo di L.R. Binford, del 1962, il cui titolo, Archaeology as Anthropology, rispecchia ambiente ed esigenze da cui esso nacque. La "Nuova Archeologia" si mosse sostanzialmente nella logica del rapporto fra antropologia e archeologia, associate negli Stati Uniti negli stessi dipartimenti; il rapporto instauratosi fra le due discipline è sinteticamente espresso in una massima affermata da due autorevoli rappresentanti dell'antropologia americana (Willey - Phillips 1958) e ripetuta dallo stesso Binford (1962): "l'archeologia americana o è antropologia o non è niente". I fautori della New Archaeology si proposero di dare all'archeologia dignità di disciplina "scientifica" e a tale scopo ritennero necessario che l'archeologo operasse con le metodologie delle scienze esatte e applicasse, come nella fisica, nella biologia o nella medicina, procedimenti ipotetico-deduttivi, in sostituzione del metodo induttivo proprio della "archeologia tradizionale"; in altri termini, chiedevano di arrivare con metodo analitico alle leggi generali rappresentate da modelli e di far discendere da queste la spiegazione dei fatti particolari. Nella ricca letteratura originata dalla New Archaeology si sono sommate posizioni diverse e talora contrastanti, ma sono identificabili aspetti comuni, come l'esigenza di esplicitare le premesse teoriche delle procedure di ricerca; l'orientamento a individuare tali procedure tra quelle che hanno influenzato discipline come la geografia, la linguistica, l'antropologia, le scienze sociali, la filosofia della scienza; la mancanza di interesse per l'approccio storico. Alla fine degli anni Sessanta i principi della New Archaeology arrivarono in Europa, e prima di tutto in Gran Bretagna, dove furono diffusi principalmente da D.L. Clarke (Analitical Archaeology, London 1968; Models in Archaeology, London 1972) e da C. Renfrew (The Emergence of Civilization, London 1972). La discussione riguardò soprattutto la ricerca preistorica all'interno della quale era stata avviata, ma non poteva non riguardare l'archeologia classica, almeno per il tentativo di controllare quanto i nuovi orientamenti avrebbero potuto arricchire il bagaglio metodologico della disciplina. Le difficoltà del dialogo consistevano specialmente nella diversa collocazione iniziale degli interlocutori, strettamente collegati in America con le scienze etno-antropologiche, in Europa con le scienze dell'antichità e con le discipline storico-artistiche. L'accoglienza più aperta ai nuovi orientamenti si ebbe in Gran Bretagna, dove i lavori di Clarke e di Renfrew ne avevano applicato i principi in campo preistorico. In un tentativo di raccordo fra le "due culture", A.M. Snodgrass, in un volume di scritti sulla Grecia geometrica e arcaica (1987), sostenne che i metodi di ricerca dell'archeologia classica rispondono sostanzialmente alle esigenze poste dalla "Nuova Archeologia", attribuendo in buona sostanza a mancanza di conoscenza la polemica contrapposizione da parte dei "Nuovi Archeologi" alla cosiddetta "archeologia tradizionale". Più decisamente I. Morris utilizza il tema dei modelli sociali nello studio delle necropoli ateniesi dall'età submicenea al periodo arcaico. Per l'età classica le posizioni si fanno più caute e si suggeriscono procedure più vicine a quelle "tradizionali" (Classical Greece: Ancient Histories and Modern Archaeologies, 1993). In altri Paesi si sono avute reazioni diverse. In Francia una delle posizioni più critiche e radicali è quella assunta da P. Courbin, che ha contestato sia le basi teoriche sia la mancanza di risultati delle poche ricerche condotte dai "Nuovi Archeologi". La sua obiezione fondamentale, che rimane motivo dominante anche nelle prese di posizione di altri classicisti più concilianti e aperti, è che l'uomo, il suo comportamento, la sua storia non possono essere assimilati all'oggetto delle scienze esatte senza cadere in concezioni deterministiche, in qualche modo presenti anche negli approcci più fini come quello sistemico di C. Renfrew. Più conciliante la posizione di Ph. Bruneau, o quella di J.-C. Gardin, che rifiuta la contrapposizione fra "induzione" e "deduzione" e riconosce fra i due tipi di procedura un rapporto dialettico continuo. La sostanziale componente antropologica della New Archaeology trovò una più larga risonanza negli ambienti già aperti ad istanze sociali, come quello delle "Annales" in Francia, o, in Italia, all'interno del gruppo di allievi di Bianchi Bandinelli, che, partendo dalle istanze che facevano da sottofondo alla storia dell'arte del maestro, le andavano sviluppando in senso economico e sociale. Studi raccolti in volumi come La mort, les morts dans les sociétés anciennes (Cambridge 1977) o Archeologia e antropologia (Roma 1987) sono indicativi di un indirizzo prevalso all'interno di questi gruppi, di orientamento marxista, dove il problema dell'ortodossia viene risolto sulla scia delle teorie di A. Gramsci, conferendo alla "sovrastruttura" dignità pari a quella della "struttura". Legato ad una rigida ortodossia rimase invece A. Carandini, che in un volumetto (Archeologia e cultura materiale) pubblicato nel 1975, e poi nel 1979, proponeva la cultura materiale come unico campo di indagine per l'archeologia. I modelli furono ricercati nell'Unione Sovietica e più direttamente in Polonia, dove erano stati esportati e il cui Istituto per la Storia della Cultura Materiale era in quegli anni presente in Italia, prima con gli scavi di Torcello (1961-62), poi con quelli di Capaccio Vecchia in Campania (dal 1973). Una tale impostazione metteva l'archeologia classica sul piano di quella preistorica e conferiva una posizione centrale alle procedure di indagine sul terreno e alle tecniche di scavo. La prospettiva veniva di fatto ricalcata sulla situazione esistente nei Paesi dell'Europa settentrionale, dove gli insediamenti medievali si sovrappongono direttamente a quelli preistorici, con assoluta prevalenza della documentazione relativa alla cultura materiale. Qui la presenza degli insediamenti romani nella fascia centroeuropea aveva facilitato l'estensione all'archeologia classica dei metodi applicati alla ricerca preistorica, mentre aveva avuto contemporaneamente un notevole sviluppo l'archeologia medievale e si erano andati definendo contenuti e finalità dell'archeologia industriale. In questo stesso ambiente erano maturati i primi tentativi di archeologia sperimentale, che, dall'episodica ricostruzione della nave vichinga scoperta in Norvegia nel 1890, giunse negli anni Sessanta alla sistematica riproduzione delle condizioni di lavoro e di vita degli antichi, mediante la ricostruzione di fortificazioni, come quella romana in The Lunt presso Coventry, di abitazioni preistoriche e di vari strumenti e attrezzi di uso quotidiano. In Italia una più rigorosa ed estesa applicazione dello scavo stratigrafico all'archeologia classica si ebbe subito dopo la seconda guerra mondiale: in Sicilia a partire dal 1946, quando L. Bernabò Brea iniziò lo scavo nelle isole Eolie; la continuità dell'insediamento dall'età neolitica fino alla piena età storica fece sì che lo scavo fosse proseguito col medesimo impianto anche nei livelli di età greca e romana. Gli stessi metodi furono successivamente applicati a Tindari, a Lentini, a Siracusa, a Gela, ad Agrigento e in molti altri centri dell'isola, con risultati di grande rilievo per la conoscenza dell'urbanistica, dell'architettura, della produzione artistica e industriale della Sicilia greca. Nell'Italia settentrionale fece testo fin dagli anni Quaranta lo scavo di Albintimilium, condotto da N. Lamboglia, nei cui cantieri si formarono molti giovani archeologi italiani. A partire dal 1970, sempre per iniziativa ligure, fu avviato lo scavo di Luni. A Roma e in Campania predominò nelle università l'interesse esclusivo per le arti figurative, mentre negli scavi di Roma, Ostia, Pompei l'interesse per la messa in luce e la sistemazione dei grandi complessi monumentali prevalse largamente sul rigore dell'indagine archeologica, ignorando gli esempi pionieristici del Boni e del Fiorelli. In questa situazione si inserì, a metà degli anni Settanta, la contestazione del gruppo carandiniano, che al di là delle polemiche rivendicava la dovuta attenzione per il dato di scavo. L'impostazione teorica della ricerca, la finalizzazione alla conoscenza della cultura materiale, l'interesse per la ricostruzione dei fenomeni economici concentrarono l'attenzione sulla ceramica romana che è fra le classi di materiali quella per cui l'attività del gruppo ha realizzato i risultati più rilevanti. In questo ambiente, a partire dai primi anni Settanta, si formò anche in Italia, come disciplina autonoma, l'Archeologia medievale, che occupò il settore della cultura materiale lasciato scoperto dalla già operante Storia dell'arte medievale.
L'archeologia oggi
Nata nel XV secolo come disciplina umanistica, l'archeologia ha conservato nel corso del suo sviluppo il doppio interesse, artistico e storico-documentario, che le aprì inizialmente la strada ad un razionale ritorno all'antico. Nel lungo periodo i due interessi si sono articolati in modo da rispondere ai cambiamenti di prospettiva e di esigenze che si sono succeduti nel tempo e nei diversi Paesi, adeguando ad essi finalizzazione e metodologia della ricerca. Le discipline che si sono staccate dal tronco dell'archeologia classica sono state in prevalenza mosse dall'interesse storico-documentario; nell'ambito dell'archeologia classica, invece, è sempre largamente prevalso l'interesse per le arti figurative, che da Winckelmann in poi ha avuto un ruolo trainante negli sviluppi della ricerca. L'influenza degli orientamenti positivistici, e soprattutto le esigenze imposte dalle grandi imprese di scavo, hanno contribuito a riequilibrare, negli anni precedenti e immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, l'impostazione metodologica della ricerca, assegnando un posto adeguato alla documentazione costituita dagli oggetti di uso comune e dai manufatti prodotti in serie. Nei manuali propedeutici allo studio dell'archeologia pubblicati in quegli anni i due aspetti della ricerca trovarono, nella reciproca integrazione, un equilibrio che si riflette nella definizione accademica di Archeologia e Storia dell'arte greca e romana che la disciplina ebbe in Italia. In parallelo alla doppia intitolazione si è parlato di "disciplina bifronte"; "archeologia del coccio" e "archeologia della statua", come sono stati definiti i due volti della disciplina, non sono tuttavia aspetti divergenti, ma (teoricamente) successivi della stessa procedura metodologica; la statua, infatti, come qualsiasi altro manufatto, richiede preliminarmente un lavoro filologico di ricostruzione, datazione e interpretazione che permetta di prenderne atto come documento. Le specifiche procedure di analisi iconografica e formale della ricerca storico-artistica si attivano, su questa base, nel caso in cui il manufatto abbia valenza formale. Nei casi in cui il manufatto viene utilizzato come documento per rispondere a domande specifiche di altri settori disciplinari, come la storia economica, politica o religiosa, si pone il problema del rapporto e del collegamento fra archeologia e disciplina da cui il documento viene utilizzato. Tale rapporto è stato risolto nell'assorbimento dell'una disciplina nell'altra, come nel caso citato degli antropologi americani che considerano l'archeologia parte dell'antropologia, o si è posto come problema da risolvere con la ricerca di metodologie originali, a corredo di nuove discipline come "etnoarcheologia" o "antropoarcheologia", che in termini più sintetici ripropongono un rapporto simile a quello fra "archeologia e storia dell'arte classica", con una specifica e più limitata finalizzazione della "archeologia". Per quel che riguarda il rapporto fra archeologia e storia dell'arte, la storia dell'archeologia classica è stata caratterizzata negli ultimi cinquant'anni del XX secolo dall'influenza di correnti di pensiero tendenti a sbilanciare in un senso o nell'altro il quadro metodologico sopra delineato. A partire dalla metà degli anni Trenta ebbe notevole peso in Italia l'influenza dell'idealismo crociano, che nel campo delle arti figurative fece convergere l'interesse della ricerca sulla personalità degli artisti; la sua fondamentale esigenza storica e la contrapposizione alle tendenze deterministiche delle "ricerche di struttura" (diffuse specialmente in Germania) e del positivismo evoluzionistico furono i motivi dominanti nell'attività critica di storici dell'arte antica e moderna, come R. Bianchi Bandinelli e C.L. Ragghianti, che a partire dal 1935 ne sostennero i principi nella rivista La Critica d'Arte. L'influenza dell'idealismo ha lasciato le tracce più profonde negli orientamenti metodologici degli storici dell'arte medievale e moderna; accogliendo il concetto crociano di "poesia", essi hanno infatti privilegiato un approccio decisamente "estetico" al documento figurato, esaltando la creatività individuale dell'artista rispetto al contesto da cui egli proviene. Fra gli archeologi e storici dell'arte antica alcuni, come G. Becatti, in lavori di alto livello come quelli su Fidia e sul Maestro di Olimpia, hanno confermato la loro adesione all'idealismo crociano; altri, invece, hanno preferito un approccio che privilegiasse l'esigenza storica in senso più lato, allargando l'attenzione al contesto culturale in cui si è formata la personalità dell'artista. Su questa posizione Bianchi Bandinelli già nel 1939 si staccò da Ragghianti, "dinamico conservatore dell'ortodossia crociana", e nel 1961 giunse alle formulazioni di Archeologia e cultura, in cui il suo tormentato iter teorico trovò il punto di arrivo in un incontro fra la sua natura di storico dell'arte e le posizioni del materialismo storico; il suo accostamento al marxismo non gli impedì infatti di considerare la documentazione figurata "la più diretta e genuina testimonianza storica del passato" e di sostenere ancora negli anni Settanta la preminenza dell'indagine storico-artistica nel campo dell'archeologia classica. L'altro orientamento ideologico con cui l'archeologia ha dovuto confrontarsi nell'ultimo mezzo secolo è costituito dal marxismo; il fenomeno ha interessato soprattutto le scienze preistoriche, ma ha avuto anche notevoli riflessi sugli orientamenti metodologici dell'archeologia classica. Fino a qualche anno fa l'ortodossia del sistema era garantita dall'organizzazione scientifica dell'Unione Sovietica estesa ai Paesi dell'Est europeo. Nell'Europa occidentale gli ambienti più sensibili a queste istanze si possono identificare in Inghilterra e in Francia, dove hanno trovato un terreno favorevole, da un lato nella lunga tradizione di studi economici e sociali, dall'altro nelle problematiche di carattere antropologico. Abbiamo visto come in Italia le istanze marxiste abbiano fortemente influito fin dagli anni Quaranta sullo storico dell'arte Bianchi Bandinelli; furono tuttavia poste in maniera esplicita a metà degli anni Settanta, quando la storia dell'arte fu relegata fra le "soprastrutture" ideologiche, mentre venivano collocate in primo piano le indagini sulla "struttura" della vita economica come responsabile degli sviluppi della società. Una strada diversa hanno invece percorso i neomarxisti, i quali hanno messo in discussione la subordinazione delle "soprastrutture" alla "struttura" economica, sostenendo una loro interrelazione e reciproca influenza; in altri termini, nelle società primitive non solo i processi di produzione avrebbero influito sul sistema di conoscenze e di credenze della società, ma le ideologie a loro volta avrebbero influito sui cambiamenti e sugli stessi processi di produzione. Con questa impostazione si legittimava, all'interno dell'ideologia marxista, la valorizzazione delle testimonianze "intenzionali", quali sono non solo i monumenti figurati, che ci trasmettono volutamente un messaggio, sia esso politico, religioso, o di altra natura, ma tutti i documenti in cui si riflettono le categorie mentali della società antica. Seguono questa linea ideologica gli studi sulla mentalità antica che si sono moltiplicati negli ultimi decenni sia in Italia che in Francia e a cui la documentazione archeologica ha portato contributi significativi, sia nel settore preistorico, sia in quello dell'archeologia classica. Nel settore preistorico e protostorico è stata dedicata particolare attenzione all'area funeraria, all'interno della quale necropoli, tombe, corredi e riti funerari sono stati utilizzati come segni in cui si riflette la società dei vivi. Grandi possibilità di risposte sono anche contenute nei documenti dell'area sacra, come santuari, templi, stipi votive, e più ancora nei documenti figurati: ricerche iconografiche e iconologiche applicate, ad esempio, ai cicli figurativi delle tombe greche e italiche della Magna Grecia, o ai mosaici di Piazza Armerina, o alla decorazione figurata dei vasi attici, hanno dato l'occasione per indagare idee, intenzioni, condizioni che si trovano dietro quelle immagini. Gli aspetti antropologici, largamente presenti negli orientamenti del neomarxismo, appaiono fortemente influenzati dalle idee della "Nuova Archeologia", che diffondendosi in Europa intorno agli anni Settanta creò un ponte fra l'archeologia europea, tradizionalmente legata all'impianto storico delle scienze dell'antichità, e l'archeologia americana inserita nell'ambito dell'antropologia come parte di essa. Fra le proposte della "Nuova Archeologia" un buon seguito ha trovato, soprattutto nell'ambito della ricerca preistorica, la teoria dei "modelli", utilizzati specialmente per la definizione di procedure atte a cogliere nel loro contesto, e quindi al massimo della loro possibilità esplicativa, i significati dei dati archeologici. Meno fortuna ha avuto invece la proposta di un approccio deduttivo- nomotetico, connesso inizialmente alla teoria dei "modelli" e ad un complessivo rigetto dell'approccio storico. È stato largamente osservato che mentre nelle scienze esatte i fenomeni si ripetono identici e la ripetizione vale come legge, nelle scienze umane la posizione centrale dell'uomo impone una logica diversa. Sviluppi in questo senso si sono avuti all'interno della stessa New Archaeology, prima con l'archeologia "processuale" di C. Renfrew e, a partire dagli anni Ottanta, con l'alternativa postprocessuale di I. Hodder, che in sintonia con la tradizione europea ha sollecitato il riconoscimento del ruolo dell'individuo nella storia. Un altro riflesso della scientificità programmatica dei "Nuovi Archeologi" è costituito dalla tendenza a ricercare, all'interno di altre discipline, metodologie sofisticate da applicare alla ricerca archeologica; procedure poco comuni nell'indagine archeologica sono state proposte con linguaggio inusitato, che ha assunto talora l'aspetto di un gergo fra addetti ai lavori, suscitando larghe perplessità particolarmente fra gli archeologi classici. La propensione per i problemi teorici ha avuto il merito di richiamare l'attenzione sui principi e sulle finalità della ricerca, ma è anche responsabile di un eccesso di tendenze teoriche e programmatorie che hanno largamente soverchiato, specialmente nei più giovani, la concreta applicazione alla ricerca, conferendo spesso alla dottrina aspetti velleitari. Fra le discipline "visitate" quella che ha avuto la maggiore fortuna è stata certamente l'informatica, utilizzata, soprattutto nella ricerca preistorica, per l'applicazione di metodi matematici e statistici. Più largamente è servita per la gestione dello scavo e specialmente per la creazione di "banche-dati", rese sempre più necessarie dal moltiplicarsi della documentazione; queste ultime hanno trovato la maggiore diffusione, e anche le maggiori difficoltà, nel campo dell'archeologia classica, dove la varietà e la complessità dei materiali ha posto in primo piano il problema della "normalizzazione" del sistema descrittivo. Si è così tornati con nuovi interessi ai vecchi problemi dell'obiettività della descrizione e alla sua distinzione dal momento interpretativo. La discussione, approfondita soprattutto in Francia e in Spagna, ha portato alla proposta di chiamare "archeografia" questo momento del metodo, conferendogli autonomia. I metodi informatici, in via di assorbimento da parte della ricerca archeologica, ne fanno ormai parte a pieno titolo. Sotto il nome di archeometria sono invece comprese le tecnologie elaborate nell'ambito di altre discipline e utilizzate dagli archeologi per il raggiungimento di finalità specifiche, come la datazione dei materiali, la prospezione del terreno o delle murature, l'analisi degli oggetti e la determinazione della loro composizione. In questo caso le tecniche vengono di solito applicate da "non archeologi", ma in stretta collaborazione con gli archeologi che pongono la domanda alla ricerca tecnologica. Le due competenze si integrano, ma sono distinte, ed è pericolosa la tendenza in molti casi latente a confondere i due ruoli, come laddove l'individuazione del degrado si confonde con la progettazione del restauro. Nell'ambito delle discipline in rapporto con l'archeologia può essere infine distinto un terzo gruppo: vi afferiscono le discipline i cui risultati convergono nella formazione dell'"archivio biologico". Antropologia fisica, archeozoologia e archeobotanica svolgono le indagini all'interno delle loro finalità istituzionali appoggiandosi al metodo archeologico, specialmente per la raccolta dei dati; il risultato della ricerca confluisce nel quadro complessivo della ricostruzione storica a cui mira la ricerca archeologica. Appare evidente che questo genere di indagini, ormai sistematicamente associate alle imprese di scavo, ha portato un fondamentale contributo alla conoscenza dei rapporti fra insediamenti e ambiente, che è uno degli aspetti essenziali di quella "ricostruzione totale" del mondo antico verso cui è orientata la moderna archeologia.
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